Il petrolio iraniano arriva in Italia

Eugenio Dacrema
Nonostante la fine delle sanzioni, l'economia del paese persiano stenta ancora. E la riapertura all'occidente divide la classe politica sia a Teheran sia a Washington
Milano. Non solo missioni diplomatiche, convenevoli e statue coperte. Il rapido scambio di visite di capi di stato e delegazioni fra Italia e Iran sta già mostrando i primi effetti concreti, con l’arrivo tra pochi giorni di un carico di greggio iraniano acquistato dall’azienda italiana Iplom e trasportato dalla nave petroliera “Poetic” (segui qui i movimenti della petroliera). Altri acquistati da Saras ed Eni seguiranno presto. Quello in arrivo è il secondo carico di greggio dell’era post-sanzioni diretto verso un paese europeo (la prima volta in Spagna), riconfermando ancora una volta come l’Italia si sia voluta porre in prima linea tra i paesi occidentali nell’accogliere il rientro dell’Iran all’interno del sistema internazionale, soprattutto a livello economico.

 

Ed è proprio l’economia il nodo più sensibile per Teheran, quello su cui si gioca gran parte del futuro degli assetti politici interni. Quell’economia disastrata che ha spinto finora la Guida Suprema Khamenei ad appoggiare il moderato Rouhani contro l’ala dura del regime e ad avvallare l’accordo sul nucleare. Quella stessa economia ha spinto gli iraniani ad accogliere con giubilo l’annuncio della chiusura dell’accordo nel 2015, momento di massima popolarità del governo Rouhani, entusiasmati dalla promessa della fine delle restrizioni e dell’inflazione che avevano caratterizzato i lunghi anni delle sanzioni.

 

Oggi quell’economia, a sei mesi dalla fine ufficiale delle sanzioni, stenta però a decollare. E non sono una gran consolazione i primi carichi di greggio che partono per i mercati stranieri, venduti spesso sottocosto per riconquistare quote di mercato. Carichi che vengono spesso dalle enormi scorte accumulate negli anni di blocco delle vendite. Una volta esauriti gli inventari, Teheran dovrà rimettere in moto a pieno regime i propri pozzi, che molti temono danneggiati dai molti anni di blocco di ricambi, riparazioni e rinnovamento. Un rinnovamento che, come tutto il resto dell’economia iraniana, ha bisogno di investimenti che sarebbero dovuti finalmente arrivare dopo la riammissione di buona parte delle banche iraniane nel circuito finanziario internazionale, in un processo che prosegue ancora a rilento. Il motivo è facile da comprendere e anche da trovare sul mappamondo, perché quando si parla di Iran e di antagonisti esterni in cima alla lista, spesso lunga, ci sono sempre loro: gli Stati Uniti.

 

Secondo Annalisa Perteghella, research fellow dell’Isituto di politica internazionale (Ispi) di Milano, “il fatto che restino in vigore le sanzioni primarie americane, legate non al programma nucleare iraniano ma alla sua attività di supporto al terrorismo, scoraggia i grandi gruppi bancari a coprire operazioni nel paese. Le sanzioni americane impediscono infatti le transazioni in dollari verso l'Iran; nonostante le banche europee possano formalmente operare nel paese, esse, esposte anche negli Stati Uniti, temono ripercussioni sul proprio operato e pertanto optano per la prudenza”.

 

Gli Stati Uniti continuano inoltre a dichiarare i pasdaran – le Guardie della Rivoluzione – una organizzazione terroristica. Se si trattasse solo del corpo militare, il più oltranzista e attivo sugli scenari internazionali dall’Iraq al Libano, non sarebbe un problema. Ma i Pasdaran, oltre a combattere, armare e addestrare milizie in giro per il medio oriente, controllano anche una consistente fetta dell’economia iraniana in settori trasversali, dalle telecomunicazioni alla finanza e le costruzioni. Inserirsi nell’economia iraniana significa quindi avere ottime probabilità di avere a che fare con le aziende a loro collegate, con il rischio concreto, ancora una volta, di incorrere nelle sanzioni americane.

 

Se l’America ha lasciato che fossero rimosse gran parte delle barriere dirette ai rapporti economici con l’Iran ne ha quindi lasciate in piedi molte altre, seppure indirette, finora quasi altrettanto efficaci. Il fatto è che gli americani, non meno degli iraniani, sono anch’essi divisi al proprio interno tra moderati propensi al compromesso con Teheran e falchi contrari a qualunque vero reapprochment, nemmeno sul terreno economico. Secondo Perteghella “il ruolo degli Stati Uniti non è univoco: da una parte abbiamo l'Amministrazione Obama, impegnata in questi ultimi mesi di mandato a difendere l'accordo, dall'altra abbiamo un Congresso fortemente contrariato a quello che è stato percepito come un "abbandono" dei tradizionali alleati, Arabia Saudita e Israele, e che sta facendo di tutto per dare fastidio all'Iran in altri modi, come la legge sui visti o la decisione di destinare buona parte dei fondi iraniani congelati negli Stati Uniti alle vittime degli attentati di Beirut del 1983”. E mentre l’Amministrazione Obama spara le sue ultime cartucce per l’approvazione dell’accordo al Congresso, molti temono che i falchi aspettino il prossimo presidente, probabilmente assai meno moderato in materia, per rialzare la testa.

 

E intanto l’economia iraniana stenta a crescere, rischiando di compromettere l’alleanza di interesse fra Khamenei e Rouhani, comprese le possibilità che quest’ultimo possa essere rieletto nel 2017. Essa potrebbe fare largo a un’altra alleanza indiretta, quella fra pasdaran e falchi a stelle e strisce, che potrebbe così ottenere risultati già l’anno prossimo e che è guardata con crescente preoccupazione tra coloro che pensano che l’unico modo per moderare il regime iraniano e la sua politica in medio oriente sia proprio appoggiare la sua prosperità economica e le forze che da essa traggono maggiore profitto elettorale. Forze che, nonostante le crescenti difficoltà, hanno comunque ottenuto un buona performance nelle elezioni legislative di fine aprile. Se una parte del regime a Teheran è contrario a ogni apertura, sembra infatti che gli iraniani la desiderino eccome.

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