Banca Popolare di Milano

La fusione Bpm-Banco è fatta. Per convincere i mercati, però, serve ancora altro

Ugo Bertone
Superata un'altra assurda linea del Piave dello status quo bancario italiano. La strada resta impervia tra ricapitalizzazione, fondazioni sul chi va là, costi del lavoro.

“Voglio essere chiaro una volta per tutte: io ci metto la faccia, non ci sarà nessun aumento perché non ce n’è bisogno, lo abbiamo detto con chiarezza io e Castagna”. Così Pier Francesco Saviotti, ad del Banco Popolare, nell’intervista al Messaggero del 26 febbraio scorso. Le cose, si sa, sono andate diversamente. Per avere il via libera all’operazione di fusione con la Banca Popolare di Milano, l’istituto ha dovuto promettere un aumento di un miliardo di euro. “Ho contestato fino all’altro ieri l’aumento di capitale, non per una sciocca presa di posizione – ha spiegato Saviotti – ma perché ritenevo che le due banche insieme avrebbero potuto gestire le sofferenze senza necessità di un aumento di capitale e rispettando i parametri considerati necessari dalla Bce”. E’ questo, probabilmente, il segnale di discontinuità di un’operazione “storica”, che ha avuto per ora un’accoglienza negativa, peggiore delle previsioni, da parte dei mercati finanziari, che hanno così preso atto che il mondo, visto dai caveau degli istituti italiani è davvero cambiato.

 

La Vigilanza della Banca centrale europea non ha fatto alcuno sconto politico ai due istituti. Anzi, come è giusto, non ha avuto alcuna indulgenza verso i ratio della Popolare veronese, azzoppata da incagli e sofferenze lasciati in eredità dai guasti della Popolare Novara e, soprattutto, dallo sciagurato attivismo della Popolare di Lodi. E’ vero che, potendo contare su un patrimonio più solido, grazie all’apporto di Bpm, la fusione avrebbe comunque consentito di guadagnare tempo e di attutire l’impatto delle perdite da far emergere nel tempo. Ma non è più tempo di “comprensione”, quella di cui ha dato prova in altre occasioni la Banca d’Italia. Anzi. Nel “nuovo mondo”, le maggiori dimensioni non servono a spingere le banche nella categoria del “too big to fail”, ma al contrario ad essere classificate come istituti sistemici, cui si devono chiedere requisiti ulteriori di solidità e di trasparenza. Da qui la severità di madame Danièle Nouy, ma anche le lamentele di buona parte del sistema Italia, dai malumori dell’Abi per il presunto trattamento preconcetto verso le nostre banche all’atteggiamento di buona parte dei mezzi di informazione. Per fortuna, grazie al richiamo decisivo di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan, l’Italia ha evitato in extremis la difesa di un’assurda linea del Piave a difesa della (precaria) situazione attuale.

 

I malumori emersi nel mercato azionario, in forte ribasso dopo un iniziale gradimento, hanno del resto una spiegazione facile: il nuovo gruppo non promette un’impennata degli utili. Primo, perché per rastrellare il miliardo di capitale necessario, la superbanca dovrà dar prova di grande creatività finanziaria: Saviotti sa che gli azionisti storici, a partire dalle fondazioni, sono state ostili fino all’ultimo ad un esborso oneroso e poco profittevole, senza dimenticare la perdita di potere locale per i notabili, specie veneti. Sarà necessario ricorrere a strumenti nuovi, senza però sacrificare del tutto il diritto di opzione. Niente coco bond, come sarebbe piaciuto a Davide Serra, ma via libera “ad un convertendo, ad un mandatory o ad altri prodotti che non sono il tipico aumento capitale con diritto opzione", ha anticipato Saviotti. Nell’attesa, il mercato si mantiene cauto. Anche perché questa fusione che nasce senza l’obiettivo di tagliare la voce costo del lavoro o di procedere ad una massiccia cessione di partecipazioni (“Vogliamo dire con orgoglio che non siamo obbligati alla cessione di alcun asset”, ha sottolineato Giuseppe Castagna, che sarà l’ad della nuova banca). Ottimi propositi, purché si creda che i banchieri italiani abbiano trovato la formula della quadratura del cerchio.

 

Né esalta i grandi operatori internazionali, ormai giudici delle vicende nostrane (il primo azionista del Banco è Blackrock), la quota di mercato del nuovo istituto nelle cosiddette aree forti del Paese, Lombardia-Veneto-Piemonte. Un’ottima cosa, se servisse a sviluppare sinergie (vedi taglio dei costi ma anche servizi per le imprese che intendono crescere, non solo con l’export, oltre frontiera), altrimenti il beneficio rischia di essere modesto. Insomma, fatta la fusione (per ora solo annunciata) la strada sarà senz’altro impervia. Sotto gli occhi di una Vigilanza severa, per niente comprensiva della diversità italiana. Il che, tutto sommato, è una gran bella notizia.

Di più su questi argomenti: