André Esteves

Non solo Fiat. I contraccolpi sull'Italia del tracollo brasiliano

Ugo Bertone
Gli scandali di corruzione e il declino economico carioca sono una minaccia per alcuni big nazionali

Milano. “Siamo meglio di Goldman Sachs”. Non sono passati due mesi da quando André Esteves, 47 anni, astro di prima grandezza della finanza brasiliana, poteva mettere con orgoglio a confronto i numeri del terzo trimestre della sua Btg Pactual con quelli del colosso americano. A ragione, perché la redditività della banca brasiliana, pari al 28 per cento sul capitale investito, era tale da fare impallidire i conti di Goldman, che si è dovuta accontentare di un ben modesto 7 per cento. Per non parlare del povero Monte Paschi, di cui Esteves aveva acquisito una partecipazione del 2 per cento che non gli ha fruttato che dispiaceri. Pazienza, perché l’investimento in quel di Siena ben si sposava con la tenuta di Argiano, 100 ettari di filari di uva e uliveti a sud di Montalcino, comprata nel 2013 per 40 milioni di dollari. Altri tempi.

 

La resistibile ascesa di don André si è interrotta il 25 novembre con l’arresto da parte della magistratura brasiliana. L’accusa? Una mazzetta da 12 milioni di dollari versata, in cambio di favori per la banca, al senatore Delcídio do Amaral, secondo la magistratura brasiliana uno dei collettori delle tangenti Petrobras, per cui sono già sotto inchiesta 34 parlamentari. In attesa che si concretizzi la rischiesta di impeachment già formulata nei confronti del presidente Dilma Rousseff, l’erede politica di Lula. Esteves, che ha negato ogni addebito, si è comunque dimesso dalla banca, cosa che non ha impedito ai clienti di ritirare più di 2 miliardi di dollari dai fondi amministrati da Btg. Al punto che i nuovi amministratori sono stati costretti a mettere in vendita i gioielli comprati da Esteves: senz’altro la Bsi, la banca di Lugano comprata da Generali che, in parte, aveva accettato di essere pagata in azioni Btg che non potrà vendere fino a marzo: chissà se varranno ancora qualcosa a quell’epoca. Btg Pactual ha anche ridotto la sua partecipazione in Mps dal 2 a meno dell’1 per cento, dopo l’arresto di  Esteves, motivando un nuovo scivolone del titolo a Piazza Affari. Ma comunque un indizio del fil rouge, sempre più stretto, del legame d’affari che lega Italia e Brasile nella buona e nella cattiva sorte che ha investito il paese leader del sud America. La liason è nota. Nel 2012 Massimo D’Alema, ex ministro degli Esteri, ne parlò così: “I bilanci Fiat, Pirelli e Telecom quadrano grazie al Brasile non grazie a casa nostra”. I numeri, implacabili, ora segnalano che l’economia tra Sau Paulo e Rio sta vivendo la peggior congiuntura dagli anni Trenta. Il pil accusa un calo del 4,5 per cento rispetto a un anno fa (meno 1,7 nel solo terzo trimestre). Va peggio l’occupazione, sostenuta dai sussidi a pioggia che hanno contribuito a ingrossare il deficit oltre i 9,5 punti percentuali. Intanto il numero dei disoccupati accelera: dal 4,7 al 7,9 per cento in meno di un anno. E’ in questa cornice che va inquadrata “Car Wash”, la Mani pulite carioca nata con l’indagine sul colosso petrolifero Petrobras, vero e proprio stato nello stato, già culla politica dell’attuale presidente che già immaginava fiumi di greggio zampillare dal fondo dell’Oceano a pochi chilometri da Copacabana. Ma il crollo dei prezzi del greggio combinato con le difficoltà tecniche delle estrazioni in acque profonde e inesplorate, hanno ridimensionato le attese. Ma non gli appetiti che accompagnano, a ogni latitudine, affari e traffici miliardari che sanno di petrolio. Petrobras ha così assunto il ruolo di munifico finanziatore (o corruttore) in un paese che vanta una magistratura indipendente. In questo contesto le aziende italiane, che negli anni buoni hanno compensato i guai nel Belpaese con i profitti carioca si stanno attrezzando per sostenere la congiuntura.

 

[**Video_box_2**]I conti li ha fatti Mediobanca Securities a settembre, subito dopo la bocciatura del rating del paese a opera di Standard & Poor’s (BB+ con oulook negativo), seguita a ottobre dalla retrocessione di Fitch (BBB- a un passo dal girone dei titoli spazzatura). Secondo le stime di Mediobanca l’azienda più carioca è la “cinese” Pirelli (il 30 per cento del rapporto tra ricavi ed Ebtda) davanti a Telecom Italia, la prima tra le quotate a Piazza Affari con un peso sui ricavi pari al 29 per cento e del 17,5 per cento sull’Ebit. Fino a poche settimane fa Marco Patuano, l’amministratore delegato, ha negato l’ipotesi stessa di un’uscita dal paese di Tim Brasil. Ma, a inizio novembre, parlando delle avances dei russi di LetterOne, società di investimento con sede in Lussemburgo dell’oligarca Mikhail Fridman, interessati alla fusione tra la controllata del gruppo italiano e la brasiliana Oì, lo stesso Patuano ha cambiato tono: “Siamo aperti a valutare offerte adeguate per Tim Brasil. Siamo investitori industriali ma in Brasile esamineremo tutte le opzioni che possono aumentare il valore”. Ovvero: la crisi del mercato, tra l’altro esposto a una concorrenza feroce, può suggerire l’idea di una ritirata purché ben pagata. Non è, né può essere questa la strategia di Fiat-Chrysler, che difende con le unghie e con i denti la leadership in quello che è stato, nel 2014, il terzo mercato al mondo, l’isola felice del gruppo perché, come si usava dire a Torino prima dello sbarco in America “Fiat è un’azienda brasiliana con qualche stabilimento in Italia”. Oggi, frenata dalla crisi del mercato già drogato sostenuto dagli incentivi governativi, Fca deve fare i conti con un calo delle vendite del 30 per cento circa per le auto, di più per le macchine agricole di Cnh che ha in pratica chiuso gli impianti fino a Natale. Ma indietro non si torna: un po’ perché a Betìm, nel nord del paese, Fca, che in Brasile realizza l’8 per cento dei ricavi (contro il 15 di Cnh) ha creato l’impianto più importante e moderno del gruppo, un po’ perché sarebbe folle non puntare sull’appeal di Jeep anche a queste latitudini. E non finisce qui l’attrazione fatale dell’Italia per il depresso gigante sudamericano. Qui è molto esposta Tenaris, gigante dei tubi, così come Prysmian, multinazionale dei cavi che in Brasile ha realizzato l’8 per cento dei ricavi 2014. Ma nell’elenco figura un po’ di tutto: autostrade (Atlantia), grandi lavori (Salini Impregilo), le polizze delle Generali e fondi di investimento Azimut piuttosto che gli apparecchi biomedicali di DiaSorin. O Luxottica, Campari e Parmalat. Insomma, ce n’è abbastanza per sospettare che i guai brasiliani siano anche un po’ nostri.    

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