Matteo Renzi con Angela Merkel (foto LaPresse)

Tra rifugiati e Qe. In che senso Renzi è un osservato speciale in Germania

Marco Valerio Lo Prete
La legge di Stabilità, il deficit, le riforme e la "leadership fatigue" di Berlino

Berlino. Ieri sera, dopo il varo della legge di Stabilità in Consiglio dei ministri e la sua presentazione alla stampa, Matteo Renzi è volato a Bruxelles. Per discutere il dossier immigrazione, certo, ma anche per sondare gli altri capi di governo sulla manovra italiana e più in generale sullo stato di salute della ripresa europea. Su tutti questi fronti, ancora una volta, la figura chiave con cui confrontarsi è Angela Merkel. La cancelliera, in queste ultime settimane, è impegnata in prima persona in un’opera di convincimento del suo partito, della sua maggioranza e dei suoi elettori per far rientrare i malumori di chi ritiene avventata la politica di estrema apertura ai rifugiati siriani. Ieri il quotidiano finanziario Handelsblatt notava che la retorica merkeliana ha subìto un cambiamento di non poco conto. La cancelliera è passata dal ripetere “ce la faremo a gestire la crisi dei rifugiati”, al più recente “ce la faremo a gestire la crisi, ma non da soli”. Chiamare in causa l’Unione europea, in questa fase, ha un significato più profondo del consueto scaricabarile. Mentre infatti nel discorso pubblico dei paesi periferici sembra sopito il dibattito esistenziale sul futuro della moneta unica (citofonare Draghi per scoprire il responsabile di tale svolta), nell’establishment tedesco l’affaire rifugiati ha radicato un certo scetticismo sulla futura sostenibilità di tutto l’impianto comunitario.

 

Stavolta non c’entrano le manifestazioni xenofobe (che pure ci sono) e i partitini euroscettici (che si ringalluzziscono un po’ nei sondaggi). Il punto è che dalla crisi siriana a quella ucraina, passando a quella della moneta unica, sono ormai troppo numerosi e ravvicinati nel tempo i fronti sui quali Berlino sente di essere costretta all’azione solitaria. Azione tra l’altro non sempre coronata da successo. Ecco dove nasce questa “leadership fatigue” che Merkel registra in tanti dei suoi interlocutori e che adesso intende contrastare. “Ma non da soli”, ripete appunto.

 

E’ in questo quadro che Renzi e l’Italia sono scrutati con attenzione, non soltanto per la rapidità con cui allestiranno gli “hotspots” necessari al riconoscimento e alla registrazione dei richiedenti asilo. Al momento chi osserva Roma da Berlino non è nemmeno così ossessionato dalla manovra. Piuttosto valuta la portata della riforma del Senato e la semplificazione del processo decisionale che ne dovrebbe discendere secondo il nostro esecutivo. Perfino a Francoforte, dove ha sede la rigorosissima Bundesbank, c’è chi ricorda i ripetuti confronti con i colleghi della Banca d’Italia che li mettevano in guardia dalla lentezza nell’approvazione delle leggi, dalla conflittualità tra i diversi livelli di governo e dalle difficoltà d’implementazione delle riforme: adesso – riflettono speranzosi nella Banca centrale tedesca – aver messo mano alla Costituzione cambierà pure qualcosa, o no? Ben inteso, sono gli stessi economisti della Bundesbank che ritengono disastrosa la performance economica del nostro paese negli ultimi vent’anni. Non è tanto un problema di singoli governi, osservano, ma di una crescita potenziale che è anemica da tempo. Merkel è meno interessata a scavare così indietro nel tempo; secondo lei, Jobs Act, riforma del Senato ed eventuale passaggio alla contrattazione aziendale sono quantomeno sufficienti per giudicare la forza politica dell’attuale governo italiano.

 

Comunque dei decimali della legge di Stabilità, con meno tagli alla spesa del previsto e tanta flessibilità da ottenere da Bruxelles, si discuterà presto. I diplomatici italiani sanno che il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, in ciò spalleggiato dal presidente della Bundesbank Jens Weidmann, non apprezza l’eccessiva politicizzazione e discrezionalità alle quali farebbe ricorso l’attuale Commissione europea al momento di valutare le leggi di bilancio dei singoli paesi. Almeno l’analisi e il giudizio delle leggi finanziarie dovrebbero essere neutrali; da qui l’idea di un super Commissario per le finanze degli stati membri. Ipotesi che il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, non a caso respinge o tenta di emendare. Volete un esempio dell’arbitrarietà sull’applicazione delle regole che i falchi di Berlino vogliono vedere sparire? Comunque la penserà Bruxelles, molti di loro non sono convinti che l’Italia possa ottenere automaticamente uno sconto aggiuntivo sul deficit consentito nel 2015 invocando l’ondata migratoria: infatti gli eventi che rendono legittimo sforare sui conti pubblici devono essere inattesi e irripetibili, ragionano i più arcigni, e Renzi per settimane ha dichiarato pubblicamente che i numeri degli arrivi di immigrati in Italia sono stati tutto sommato in linea con quelli dello scorso anno.

 

[**Video_box_2**]Infine c’è un altro dossier a proposito del quale l’Italia si trova, volente o nolente, al centro di molteplici attenzioni, ed è il Quantitative easing. L’allentamento quantitativo della politica monetaria deciso a gennaio e avviato a marzo dalla Banca centrale europea, attraverso l’acquisto di titoli di stato dei paesi dell’Eurozona e di altri pochi asset prestabiliti, è sempre stato contestato dalla Banca centrale tedesca. Adesso i punti del contendere sono gli effetti “politici” e la durata di questa politica monetaria ultra-espansiva. Draghi disse che gli acquisti di asset sarebbero proseguiti di default fino al settembre 2016, e poi continuati se l’obiettivo di una inflazione vicina al 2 per cento non fosse stato ancora a portata di mano. Ieri sul tema è intervenuto l’austriaco Ewald Nowotny, membro del Consiglio direttivo della Bce, secondo cui “stiamo chiaramente mancando il nostro obiettivo di riportare l’inflazione di lungo termine attorno al 2 per cento” e per questo sono necessari “ulteriori strumenti”. Alla Bundesbank la pensano all’opposto: intanto perché, secondo i loro studi, la quantità di moneta e di credito nell’Eurozona stava già invertendo la rotta prima dell’annuncio del Qe, poi perché discutere adesso di prolungamento o irrobustimento degli acquisti da parte della Bce è un modo per disincentivare le riforme lì dove sono necessarie. Weidmann, per sostenere questa tesi cui è particolarmente affezionato, punta il dito sui deficit fiscali che quest’anno nell’Eurozona hanno smesso di restringersi, anche in Italia. Una volta che si è abbassato il costo del debito per merito di Draghi, ecco che molte capitali hanno interrotto l’opera di risanamento fiscale. Perciò le riforme strutturali messe in campo dal governo italiano negli ultimi mesi, essendo tutte avvenute a Qe vigente, potranno servire al momento giusto per ribattere al rigorismo di Weidmann. Cartucce per Draghi, e forse anche per la Merkel nel solito ruolo di mediatrice.