La sede di Mps (foto LaPresse)

Perché la mutazione genetica di Mps va elogiata ma con cautela

Alberto Brambilla
La trasformazione definitiva che sancirebbe la metamorfosi di Mps in una vera public company deve ancora essere verificata

Roma. Il Monte dei Paschi di Siena è considerata la più antica banca del mondo, adesso ha la possibilità di diventare la più moderna in Italia prima delle altre. L’arrivo nell’azionariato di alcuni investitori istituzionali esteri, che hanno aderito alla seconda massiccia ricapitalizzazione nel giro di un anno, merita di essere salutato come la promessa concreta di un riscatto, dopo anni in cui in banca hanno prevalso gli interessi particolari e locali sulle logiche del mercato. Dopo l’ultimo aumento di capitale da 3 miliardi la compagine si presenta con sedici soci dalle partecipazioni polverizzate. Il Ministero dell’Economia è il secondo socio per quote detenute (4 per cento), è entrato in conseguenza della conversione in azioni della residua quota di prestiti pubblici dati al Monte e rappresenta una garanzia per gli investitori esteri. Tutti gli altri sono privati e fanno capolino fondi stranieri. E’ perciò difficile sostenere che abbia prevalso la visione di chi, fino all’anno scorso, invocava una nazionalizzazione del Monte. Il “partito dei nazionalizzatori” aveva unito analisti e politici con posizione ideologiche differenti – il diessino Vincenzo Visco, predecessore di Tremonti, un attento analista come Massimo Mucchetti, senatore del Pd, e Beppe Grillo. Tutti convergevano sul “Monte di stato”.

 

Quella posizione partiva dalla considerazione che il Monte era “tecnicamente fallito” (cit. Visco). Viene messa in discussione sia dal ritorno al profitto della banca nel primo trimestre, dopo tre anni neri, e dalla lettura dei nomi degli investitori che hanno contribuito all’aumento. Quelli già presenti prima della ricapitalizzazione e si sono rafforzati Fintech (4,5 per cento), Axa (3), Btg Pactual (3), Millenium Partecipazioni (1,7); altri che hanno rastrellato quote ulteriori i grandi fondi americani BlackRock (2,02), Vanguard Group (0,3) o come Banca Fideuram (0,2) e Deutsche Bank (0,19); altri ancora che hanno fatto capolino entrando o con una quota dimostrativa, è il caso dell’arrivo della People’s Bank of China, la Banca centrale cinese (2,01), o con una quota minima Taube Hodson Stonex Partners (0,23), Classic Fund Management Ag (0,79), Lyxor (0,18), Lemanik Funds (0,15), Interfund (0,15). E’ un cambiamento notevole ma la trasformazione definitiva che sancirebbe la metamorfosi di Mps in una vera public company – ovvero una società con un azionariato diffuso, stabile, aperto e soprattutto priva di vincoli legali che ne limitino la piena contendibilità – deve ancora essere verificata. La presenza di fondi esteri, nomi pesanti nel panorama finanziario globale, con partecipazioni polverizzate, ovvero sotto la soglia di disclousure del 2 per cento, non è una rarità – ad esempio nelle popolari del nord, Banca popolare di Milano, Banco popolare, Ubi banca – e perciò non si tratta di un segnale di per sé straordinario; andrà infatti testata la loro intenzione a investire nel medio-lungo termine e non solo l’interesse a rastrellare azioni a buon mercato. Il quotidiano finanziario MF/Milano Finanza ha forse elementi sufficienti per sostenere che la grande trasformazione sarà presto completa, almeno a giudicare dal titolo dedicato alla vicenda (“ecco i soci del Monte public company”).

 

[**Video_box_2**] L’influenza e la rilevanza della Fondazione Mps, storico baricentro di interessi locali, è certo drasticamente ridimensionata – è passata dal 51 al 2,5 per cento. Ma tuttora resiste l’intenzione della Fondazione di rinnovare il patto di sindacato con i due fondi sudamericani Btg Pactual e Fintech (si parlò anche di allargarlo alla bancassurance francese Axa). Ecco perché se la Fondazione rimane il centro di gravità del Monte la rivoluzione va elogiata, ma con cautela.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.