Il Partito comunista cinese bastona i mercati, ma il genio è uscito dalla lampada

Ugo Bertone
Pechino vuole essere riconosciuta come “economia di mercato”. Essere ruvidi con la Borsa in panne non aiuta

Milano. Doveva essere la giornata del Toro, avevano previsto i bollettini finanziari cinesi. Ma, al contrario, la seduta del 15 giugno scorso, compleanno del presidente Xi Jingping, non ha celebrato i successi del Timoniere che vuol fare di Shanghai la rivale di Wall Street. Al contrario, proprio quel giorno lo Stock Exchange ha imboccato la via del grande balzo all’indietro: un calo del 30 per cento abbondante in meno di un mese che sta a indicare una perdita di 3 mila miliardi di dollari, per lo più detenuti nei portafogli del ceto medio. Bastano le dimensioni a spiegare perché da ieri lo scoppio della bolla azionaria cinese abbia ufficialmente sostituito la Grecia in cima alle preoccupazioni delle piazze finanziarie. Il tonfo ha avuto immediate ripercussioni sui prezzi delle commodities, rame e ferro in testa, con ripercussioni sui paesi produttori, Brasile in testa, che non si faranno attendere. Così come la probabile gelata dei portafogli dei consumatori costringerà i Big de lusso a rivedere al ribasso le previsioni di vendita, come già lascia intuire il calo delle quotazioni di Ferragamo, Tod’s e così via. Ancor più pesante l’impatto per l’auto tedesca: per la prima volta da cinque anni, a giugno, sono calate le vendite nel paese del Drago. E così via. Ma, in realtà, l’impatto politico e psicologico rischia di esser ben maggiore. Per la prima volta, infatti, il potere del Partito si trova alle prese con un nemico che può batterlo: il genio dei mercati, un avversario più insidioso di quelli affrontati e domati nella lunga storia della Repubblica Popolare, dalla collettivizzazione forzata agli effetti del crac di Lehman Brothers.

 

Un genio che i cinesi, però, stanno affrontando a modo loro. Quel che distingue il mercoledì nero di Shanghai e Shenzhen dai tanti sboom occidentali, infatti, non è tanto il crollo dei titoli quotati, bensì la ritirata della finanza dei figli di Mao, che non hanno dimenticato la lezione così cara al Grande Timoniere di Su Zhou, il primo teorico dell’arte della guerra, che da millenni ispira le scelte dei figli del grande impero, generali o manager che siano: quando non sei sicuro di vincere, ritirati in attesa di occasioni migliori. Ed è quello che hanno fatto le società, specie quelle piccole e medie, trattate allo Stock Exchange futuribile di Pudong: di fronte alla previsione di una nuova valanga di vendite di titoli sopravvalutati (dall’inizio del 2014 la crescita era stata superiore al 140 per cento), più della metà delle società quotate, ovvero 1.476 titoli che rappresentano sulla carta un valore di quasi 3 mila miliardi di dollari, hanno letteralmente chiuso i battenti. Le spiegazioni? Le più vaghe, del tipo “imminenti comunicazioni importanti”, senza che la Consob locale abbia trovato per ora nulla da eccepire. Anche perché i 93 milioni di novelli azionisti e speculatori in erba che nell’ultimo anno si sono avvicinati (con la benedizione del Partito) ai segreti delle Borse hanno appressato questa pausa nella tempesta. Ma così facendo, la Borsa ha violato una delle sue leggi più importanti dei mercati azionari: sia in fase di rialzo che di ribasso il listino deve alla fine fissare un prezzo per chi compra e per chi vende. Di rado, poi, nella storia dei listini un governo si è mosso con tanta energia per correggere le leggi della domanda e dell’offerta, con l’obiettivo di proteggere ad ogni costo la tenuta dei prezzi. Negli ultimi dieci giorni si sono moltiplicate, con un’accelerazione improvvisa, le mosse espansive: prima il taglio dei tassi (il terzo in pochi mesi), poi l’autorizzazione ai fondi pensione a operare sia sulle azioni che sui futures, i derivati e gli Etf. Nel finesettimana l’arsenale è stato irrobustito con l’avvio di una santa alleanza che ha radunato le finanziarie pubbliche più liquidi (21 in tutto) allo scopo di sostenere le quotazioni.

 

E’ stata poi mobilitata la Cfc, organismo finanziario alle dipendenze della Consob locale, che ha coordinato una serie di interventi sul listino mentre lo stesso governo ha garantito al mercato la liquidità necessaria per la ripresa. Finora, ahimé, questi interventi non sono riusciti a frenare la grande frana. Come del resto è successo quasi sempre quando un governo asiatico ha tentato di correggere al rialzo un calo del mercato come in Giappone alla fine degli anni 90. Ma i governanti cinesi sono convinti di poter ripetere il successo di Hong Kong che nel 1997, in piena crisi asiatica, riuscì a difendere il listino grazie ad acquisti del governo locale. In linea con quel che succede a Taiwan, dove un ente governativo vigila a sostegno dei prezzi del mercato. E’ possibile, ma proprio durante la crisi asiatica Pechino conquistò i primi elogi della finanza mondiale quando usò le sue riserve a difesa della stabilità della moneta, senza cedere alla tentazione di operare svalutazioni competitive. Oggi la sensazione è opposta: il salvagente gettato nel mare delle perdite, dopo aver consentito alla piccola speculazione di indebitarsi fino al collo, getta una pesante ipoteca sull’immagine della finanza cinese, la punta di diamante nella strategia di transizione da un’economia basata sulle fabbriche a una società fondata sui servizi avanzati. L’ironia della sorte ha voluto che la crisi dei listini abbia coinciso con la rinnovata insistenza di Pechino per essere riconosciuta come “economia di mercato” nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio: la serrata di metà di mercati azionari, per dimensione inferiori solo a Wall Street, non è certo la miglior presentazione per un paese che vuol dimostrare di avere ormai un profilo “normale”, dalla gestione del cambio dello yuan alla guida dell’Aiib, la Banca asiatica delle infrastrutture. Invece, il collasso del listino dimostra che non avena torto Morgan Stanley a rinviare l’esordio dei titoli cinesi nell’indice Msci, la bussola su cui misurano i propri investimenti i fondi di investimento di tutto i mondo.

 

[**Video_box_2**]Se gli analisti della banca americana avessero ceduto alle pressioni per aprire le porte ai titoli cinesi, oggi i risparmi di chi si affida ai gestori professionisti (anche in Italia) avrebbero subito perdite pesanti. Ma non facciamoci illusioni: la bolla, frutto dell’espansione dell’economia negli anni ruggenti, ha prima colpito il mercato immobiliare, poi è passata, via corruzione e shopping sfrenato, alla finanza ombra. Oggi la tromba d’aria investe il mercato. E ci vorrà tempo e fortuna perché il genio rientra nella bottiglia del mercato.

Di più su questi argomenti: