Merkel, Lagarde, Juncker, Draghi e Hollande durante una riunione del vertice dell'Eurogruppo (foto LaPresse)

Il gran partito del “sì”

Marco Valerio Lo Prete
Gli appelli di Juncker, Merkel e Renzi sul referendum di Tsipras. Le Borse giù e le mosse di Draghi.

Roma. Il referendum del prossimo 5 luglio, quello sulle trattative tra la Grecia e le sue controparti creditrici, lo ha lanciato il premier Alexis Tsipras, nella notte di venerdì, specificando che lui e i suoi compagni di governo chiederanno di votare “no”. Nelle ore immediatamente successive, e con una notevole accelerazione nella giornata di lunedì, il Comitato per il “sì” ha iniziato a organizzarsi formalmente. Si tratta di un comitato trasversale, che va ben oltre il solito fronte dei creditori grossi e cattivi. Dentro ci sono capi di governo europei di ogni famiglia politica, colossi lontani dal Mediterraneo (Stati Uniti e Cina), organizzazioni internazionali che pure nelle scorse settimane non erano state pregiudizialmente contrarie agli tsiprioti (Fondo monetario internazionale), con il sostegno silenzioso di tanti correntisti greci e lo zampino della Banca centrale europea. Nel mezzo, ci sono i mercati; come al solito, al netto di speculatori da strapazzo, si tratta per lo più della massa dei risparmi dei cittadini del pianeta in cerca di rendimenti o quantomeno di perdite limitate.

 

I mercati, lunedì, hanno avuto la prima possibilità di dire la loro, dopo che soltanto una settimana fa avevano giubilato per un accordo che sembrava a portata di mano. Lunedì hanno iniziato a perdere le Borse asiatiche, seguite poi dalle piazze europee: Milano la peggiore, ha chiuso a meno 5,2 per cento. E’ tornata a fare capolino anche Lady Spread: il differenziale tra rendimenti sui titoli di stato italiani e omologhi tedeschi è schizzato fino a 180 punti, per poi chiudere a 159 punti, 35 al di sopra della chiusura di venerdì scorso (il rendimento dei decennali italiani è salito al 2,39 per cento). Siamo per ora alla voce “volatilità”, con gli analisti tutti in cerca dell’insondabile confine che la separa dal più temibile “contagio”. L’economia greca è piccola, quanto il 2 per cento del pil europeo, con un debito estero di 424 miliardi che per il 70 per cento è in mano a stati sovrani e istituzioni pubbliche. Così, per la banca Ubs, il “contagio” dipenderà più dalla qualità della risposta europea che dall’eventuale fuoriuscita della Grecia dall’euro.

 

Lunedì intanto ha iniziato a circolare il fac-simile della scheda referendaria che i greci si dovrebbero trovare di fronte domenica prossima. Che sulla scheda prestampata l’opzione “no” si trovi al di sopra del “sì” pare a questo punto un peccato veniale del governo di Atene. Si voterà, almeno formalmente, sul pacchetto di riforme e austerity che gli europei hanno presentato a Tsipras la scorsa settimana e che questi ha rifiutato. Il tutto con Tsipras che, scrivendo con la mano sinistra su Twitter, accusa i leader europei di voler “soffocare” la volontà dei suoi concittadini, mentre con la mano destra invia lettere riservate a tutti i capi di governo chiedendo un’estensione del programma di aiuti internazionali che formalmente scade martedì. “Chiederò al popolo greco di votare ‘sì’, indipendentemente dal quesito che sarà posto, che potrebbe cambiare nei prossimi giorni”, ha detto il presidente della Commissione Ue, Juncker, lasciando “la porta aperta per un accordo”. La cancelliera tedesca Merkel si è astenuta da indicazioni esplicite sul voto; prima però aveva fatto trapelare che al referendum si sceglie tra euro e dracma, lunedì si è limitata a dire che “se fallisce l’euro, fallisce l’Europa”. Il premier italiano Renzi, che domani vedrà Merkel, è stato più diretto: “Il referendum greco non sarà un derby tra la Commissione Ue e Tsipras, ma tra euro e dracma. Questa è la scelta”. Tuttavia non è questo il tipo di “comitato per il ‘sì’” più temuto da Tsipras.

 

Cos’è che teme di più Tsipras, allora? Innanzitutto il referendum stesso. Il predecessore socialista George Papandreou, che lo propose nel 2011, salvo doverlo annullare su pressioni dei partner europei, vide coincidere quella consultazione popolare (abortita) con la propria fine politica. Allora furono per primi gli americani a capire che il premier ellenico non aveva più la forza per ottenere utili concessioni dall’austera leadership tedesca. Così oggi alle orecchie di Tsipras non suonano più come troppo amichevoli gli inviti dell’Amministrazione americana a riprendere un dialogo su basi pragmatiche. E il governo cinese sarà pure pronto a investire nel porto del Pireo o altrove, ma lunedì ha fatto sapere che preferisce che Atene rimanga nell’euro.
Con il referendum, inoltre, entra in gioco una variabile di non poco conto: il popolo greco. Il solitamente baldanzoso ministro delle Finanze greco, Varoufakis, ha confessato che c’è “un’elevata probabilità che i cittadini accetteranno queste proposte che noi abbiamo rifiutato”. Non c’è solo scaramanzia in queste parole. Da mesi i cittadini greci con un conto in banca, individui o imprese che siano, hanno “votato” facendo defluire dalle banche del paese i loro depositi. Il flusso in uscita è stato robusto e continuo; prim’ancora delle file ai bancomat del fine settimana, i depositi erano arrivati a 120 miliardi di euro, dai picchi di 240 miliardi pre-crisi. Soltanto a fine febbraio la fuga si era interrotta, proprio quando Merkel, di fronte alle prime proposte concrete di Atene, disse “Tsipras è tornato alla realtà”. Forse che, quando si tratta del loro conto corrente, i greci si fidino più della cancelliera che di Tsipras?

 

[**Video_box_2**]Nelle prossime ore, infine, il presidente della Banca centrale europea Draghi potrebbe tornare a dire la sua. “La sua decisione di domenica di lasciare inalterato l’ammontare di liquidità d’emergenza, o Ela, per le banche greche, era la più generosa che potesse prendere”, dice al Foglio Erik Jones, direttore del Dipartimento di studi europei alla Johns Hopkins University, pur  critico di “una Banca centrale che è più un’autorità monetaria che una banca”. “Da martedì, quando Atene non ripagherà i debiti con il Fmi e uscirà dal programma della Troika, Draghi dovrà poi aumentare il collaterale richiesto ad Atene per l’esborso di liquidità d’emergenza”, conclude Jones. E allora gli argomenti del Comitato per il “no” al referendum di domenica potrebbero indebolirsi ancora.