Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Ragioni per temere il dirigismo renziano applicato anche a Enel

Alberto Brambilla
Lo “statalismo creativo” avrà anche tamponato temporaneamente, a mo’ di “patchwork”, alcune crisi industriali profonde ma sembra esserci spazio per altre definizioni.

Roma. L’accentuato interventismo del governo sui piani pubblici per la diffusione della fibra ottica con il coinvolgimento di Enel, filtrati in via ufficiosa su Repubblica lunedì scorso, e la parallela interferenza in quelli privati, ovvero di Telecom Italia, ha sollevato non poche perplessità tra gli osservatori interessati a decifrare la natura della politica industriale del governo Renzi. Lo “statalismo creativo”, come l’ha battezzato il Foglio, avrà anche tamponato temporaneamente, a mo’ di “patchwork”, alcune crisi industriali profonde – come quella dell’acciaieria Ilva, dove, nonostante la rinazionalizzazione de facto, la politica non ha ristabilito il suo sacrosanto primato sul potere giudiziario visto che quest’ultimo tuttora determina la sopravvivenza del sito siderurgico pugliese commissariato dallo stato, in senso avverso (la procura di Taranto) oppure favorevole (quella di Milano) – ma sembra esserci spazio per altre definizioni, visti gli ultimi sviluppi. Franco Debenedetti, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, a partire dal caso Enel-Telecom, ha illuminato su questo giornale la contraddizione tra la retorica riservata dal premier al corpo morto del “capitalismo di relazione” e l’utilizzo prepotente delle partecipate di stato, quasi si percepisse che qualsiasi sviluppo tecnologico o infrastrutturale debba realizzarsi mediante l’uso più dell’intervento che delle forze del mercato, qualcosa di prossimo al “criptostatalismo”. Carlo Alberto Carnevale Maffé, docente di strategia e politica aziendale in Bocconi, declina in altri termini la questione ricordando che un simile approccio rischia di non giovare alla collettività. “La percezione dell’esecutivo di avere a propria disposizione un’azienda come Enel, tirandola per la giacca sul territorio dei progetti della banda ultralarga allo scopo di fare pressione su Telecom, la quale è – comprensibilmente – indisponibile a piegarsi ai gosplan statali, ricorda l’andreottiana strategia dei due forni: il secondo ‘panettiere tecnologico’, suo malgrado, è la società elettrica”, dice. “Per quanto sia comprensibile che il governo cerchi di esercitare una moral suasion sugli attori di una partita così importante, forzare un po’ strumentalmente la strategia di Enel sul fronte delle reti rischia di sconfinare nell’interferenza con le autonome scelte manageriali”.

 

“Parliamo pur sempre di un’azienda multinazionale quotata in Borsa, con moltissimi risparmiatori come azionisti e obbligazionisti, che sta giustamente preparandosi a importanti sfide strategiche proprio verso la convergenza tra reti di energia e comunicazione, sul nuovo mercato delle smart grid (reti di distribuzione elettrica e di informazioni). Così facendo, il governo – dice Carnevale Maffé – più che a una chiara politica industriale sembra dedicarsi all’attivismo tecnologico. Pretende di interferire sulla scelta dei mezzi, rischiando di violare il principio di neutralità tecnologica, quando dovrebbe concentrarsi sui fini istituzionali della sua azione. Fini che dovrebbero coincidere con lo stimolo alla creazione di una forte domanda di connettività digitale tra i cittadini. E non a interferire con le scelte d’investimento dei privati sul lato dell’offerta, mutando le condizioni concorrenziali”. Non è soltanto la concorrenza o l’impostazione teorica degli economisti di stampo liberista a essere frustrata dalla forzatura renziana. Il consulente strategico del premier, Andrea Guerra, favorevole al dialogo con gli operatori privati, ha ammesso di aver “perso 6 a 0” sulla banda larga. Lascerà Chigi entro l’anno per pilotare da ad lo sbarco in Borsa di Eataly. Era stato chiamato da Renzi a dicembre e, vista l’esperienza decennale da ceo di Luxottica, confidava di portare un po’ di “spirito imprenditoriale”. Qualcosa si è visto. Ma di sicuro le attese erano diverse: pensava di trovare un consiglio di amministrazione alla presidenza del Consiglio ma non ci ha messo molto a capire i limiti del dirigismo renziano. Un dirigismo creativo che può funzionare in alcuni casi, come succede d’altronde ormai in tutto il mondo, ma che si allontana troppo dalle logiche di mercato rischia di fare al paese un servizio a metà.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.