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Google vs. il barocchismo europeo

Renzo Rosati
La concorrenza sbiadita, a immagine e somiglianza del burocrate. Un’Europa divisa in tutto e su tutto impari la lezione americana  invece di rivalersi sui migliori

Roma. L’Europa che mostra i denti a Google si espone a una critica tanto evidente quanto al di fuori dalle contromosse del munito ufficio lobbying di Bruxelles della corporation di Mountain View, ufficio guidato dal belga Antoine Aubert, già dirigente della Commissione europea. Davvero politici e burocrati europei difendono la concorrenza imprenditoriale e la libera scelta dei consumatori, oppure ne hanno un’idea modellata su loro stessi, cioè sulle vecchie e poco trasparenti usanze comunitarie? Nell’Unione a 28, e ancora più nell’Eurozona a 19, le vere liberalizzazioni latitano o sono affidate ai compromessi dei singoli governi. Come si è appena visto in Italia con la concorrenza a metà introdotta per farmacisti e notai, per non parlare dei tassisti. Per le banche gli aiuti di stato sono proibiti, e prestiti come i 4 miliardi al Monte dei Paschi devono superare un vaglio severissimo. Il che non ha impedito all’inizio della crisi a Germania, Francia, Belgio, Olanda, Gran Bretagna di salvare con soldi dei contribuenti istituti come Commerzbank, Hre, Dexia, Rbs, Fortis. Un totale di 640 miliardi di euro, esclusi i 58 del piano Ue alle banche spagnole. A questo si sono aggiunte le bizantine regole dell’Eba, European banking authority, che hanno fortemente limitato il credito alle imprese e al consumo. Se la stretta di liquidità è stata la prima emergenza europea, la sua diretta conseguenza è di sicuro l’occupazione. Ma l’Europa non ha liberalizzato né il mercato del lavoro né quello del collocamento e ricerca di personale.

 

Il Jobs Act renziano si è applicato ai nuovi contratti privati ma non al pubblico impiego, a differenza che in Spagna. In Gran Bretagna le agenzie di collocamento operano in concorrenza tra stato e privati, in Italia sono un inefficiente semi-monopolio pubblico e sindacale. La Francia ha liberalizzato il settore sul modello tedesco; tuttavia il governo di Parigi sponsorizza la contrattazione collettiva, Berlino il modello aziendale con la compartecipazione, e quanto all’Italia soltanto Matteo Renzi ha chiuso la Sala verde di Palazzo Chigi. Nulla di ciò in Gran Bretagna e Spagna. Per tacere sull’altro fronte caldo dei clandestini e delle modalità di soccorso e accoglienza, sul quale Bruxelles continua a non trovare regole comuni. Torniamo al punto di partenza, cioè a Google. Democristiani e socialdemocratici tedeschi sono entrambi orgogliosi di mostrare i muscoli agli americani, e Günther Oettinger, del Ppe, commissario al Digitale, annuncia l’obiettivo di “sostituire con concorrenti europei i player americani nei sistemi operativi, motori di ricerca, social network”.

 

[**Video_box_2**]Già, ma come? In 25 anni di internet tutti i sistemi operativi (Ibm, Windows, Mac, e poi Android e Windows Mobile) sono nati e cresciuti in America. Così i motori di ricerca che si dividono il mercato mondiale (Explorer, Google, Mozilla, Firefox, Safari, Opera). Google è dominante in Europa, tranne però che in Germania, Polonia e Austria. Explorer è primo in America, Canada, Cina, Australia. Gli smartphone stanno modificando le gerarchie, a favore di Android-Google. Però non si vede all’orizzonte nessun player europeo. Forse a Bruxelles dovrebbero ricordare come questo è accaduto: le università americane, dal Mit di Boston a Stanford in California (i cui allievi hanno creato tra l’altro Google, Apple, Sun, Yahoo) hanno attirato fondi privati, in cambio di royalty che permettono agli atenei di finanziare corsi altrimenti in perdita. Dove si vede qualcosa del genere in Europa, Gran Bretagna a parte? Se i vari governi, per motivi loro, continuano a difendere monopoli universitari pubblici – tranne qualche briciola italiana alle scuole inferiori religiose –, se poi #labuonascuola significa imbarcare precari e zero ricerca, si potranno anche tagliare le unghie a Google. Ma, come è già successo a parti invertite nel 2004 con le sanzioni inflitte da Mario Monti a Microsoft per Explorer, soltanto per fare accomodare un altro concorrente americano.

 

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