意大利说汉语. L'Italia parla cinese

Redazione
Continua lo shopping sulle imprese italiane: è il turno di ChemChina che compra Pirelli con 7 miliardi. Pechino adesso è il primo investitore.

La Pirelli sta per diventare cinese. Azienda degli pneumatici nata 142 anni fa, poco dopo l’Unità d’Italia, quando il 24enne ingegner Giovanni Battista Pirelli, fonda una piccola fabbrica allo scopo di produrre «articoli tecnici di caucciù vulcanizzato». Pezzo di storia industriale del nostro Paese, presenza quasi secolare (dal 1922) a Piazza Affari. Icona nel mondo: la P dalla forma allungata, il calendario che nel 1963 traghettò un marchio da camionisti nell’empireo del fashion system, le gomme della Formula1, lo slogan «la potenza è nulla senza controllo», ecc. Nel 2014 sei miliardi di fatturato e 38mila dipendenti. Da oggi avrà ChemChina come socio di maggioranza assoluta.

Teodoro Chiarelli, La Stampa 21/3

 

ChemChina, conglomerato a controllo statale, 140mila dipendenti, 40 miliardi di dollari di fatturato e 43 di asset. È impegnato nella chimica, nell’agrochimica, nella produzione di gomma e nella raffinazione di petrolio. Il presidente è Ren Jianxin, 57 anni, ex dirigente della Lega della Gioventù comunista, un centro di potere dal quale viene anche l’attuale premier cinese Li Keqiang. Nel 1984, agli albori dell’economia di mercato, Ren e sette amici cominciarono con 10mila yuan di capitale, meno di 1.500 euro di oggi: una piccola impresa di detergenti per teiere nella arretrata provincia del Gansu. Dalle teiere Ren passò alla pulizia delle caldaie, degli impianti industriali, del centro di lancio delle navi spaziali Shenzhou. Il salto all’inizio degli anni ’90, quando Pechino ristruttura il settore statale, cedendo i rami che sembrano moribondi: Ren, divenuto il re dei detergenti chimici, se ne aggiudicò 107. Compresa ChemChina.

Guido Santevecchi, Corriere della Sera 21/3

 

Nel 2004 ChemChina è tornata pubblica, con Ren sempre al timone. E si è lanciata in un programma di globalizzazione, con acquisizioni all’estero: nel 2007 il silicone di Rhodia; nel 2011, per 1,5 miliardi di euro ancora silicone con la norvegese Orkla; poi, per 2,4 miliardi di dollari, il 60% della israeliana Makhteshim Agan, primo produttore mondiale di pesticidi. Tra le controllate di ChemChina c’è Aeolus. Fondata nel 1965, è al 20° posto per ricavi tra i grandi produttori mondiali di pneumatici. Nel quartier generale di Jiaozuo ha impianti per 1,3 milioni di metri quadrati e impiega 7mila dipendenti.

Guido Santevecchi, Corriere della Sera 21/3

 

Aeolus e Pirelli, insieme, creeranno il quarto gruppo al mondo in questo segmento. Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia: «I cinesi sono riusciti a fare passi da gigante su internet, a dominare negli smartphone e creare imprese molto forti nelle biotecnologie e nell’aerospaziale. Nel settore dell’auto però sono nella parte bassa del mercato, le loro macchine sembrano quelle di Topolino. Hanno urgenti necessità di know-how. E allora comprano tutto quello che è in vendita. E dall’altra parte c’è Pirelli che ha bisogno dei loro soldi».

Mariangela Pira, MilanoFinanza 21/3

 

Quando questo giornale va in stampa i dettagli dell’operazione non sono ancora formalizzati, ma cinesi vogliono il 51% della nuova catena di controllo. Catena che sarà sottoposta al quarto riassetto in quattro anni per fare spazio ai nuovi soci e dar modo ai precedenti di monetizzare parte delle quote Andrea Greco, la Repubblica 21/3. Tecnicamente: prima ci sarà il passaggio ai cinesi della quota detenuta da Camfin (la società che controlla Pirelli con il 26%) a 15 euro ad azione. Allo stesso prezzo verrà poi lanciata l’Opa totalitaria per ritirare il gruppo dal listino di Piazza Affari (dopo 93 anni). Costo dell’operazione: 7 miliardi. 1,9 ai soci Camfin (che pare ne reinvestiranno una metà per restare azionisti di peso). Il resto al mercato.

Federico De Rosa, Corriere della Sera 21/3

 

Pirelli ha già il 46% del capitale in mani straniere, il 94% del fatturato all’estero e solo 2 stabilimenti su 19 sono in Italia [6 e 7]. Non sarà comunque facile far digerire ai milanesi doc l’arrivo dei cinesi, «ma così ha deciso Marco Tronchetti Provera, dominus incontrastato in azienda fin dal 1991, quando raccolse il testimone dal suocero Leopoldo Pirelli, fattosi da parte in seguito al fallimento della scalata alla tedesca Continental».

Giovanni Pons, la Repubblica 21/3

 

Voluto da Enrico Cuccia

Teodoro Chiarelli, La Stampa 21/3

 

«Tronchetti Provera è fin da subito manager ma anche azionista di rilievo e grazie a questa peculiarità è riuscito a rimanere al timone del gruppo per 24 anni, attraverso alterne vicende finanziarie e industriali. La più clamorosa è stata quella che ha portato la Pirelli nel 2001 a comprare il controllo di Telecom Italia, un’azienda cinque volte più grande che ha rischiato di far collassare il gruppo famoso nel mondo per gli pneumatici».

Giovanni Pons, la Repubblica 21/3

 

Tamburini: «La storia di Marco Tronchetti Provera in Pirelli è ricca di successi, ma anche di cambi di marcia improvvisi. Ha cominciato salvando il gruppo dal fallimento con la cessione dei cosiddetti “pro.di.”, i prodotti diversificati (palle da tennis, gommoni, guanti, scarpe). Poi il colpo grosso con la vendita del business dei cavi (che nel 2000 faceva il 61% dei ricavi) a prezzi elevati all’americana Corning e la successiva entrata in Telecom (che si è conclusa con una sconfitta ma limitando i danni)».

Fabio Tamburini, Corriere della Sera 21/3

 

In questi anni Pirelli è al centro del crocevia della finanza italiana retto sui patti di sindacato. Tronchetti prima si libera dell’abbraccio soffocante del salotto buono. Poi (2009) imbarca la famiglia genovese Malacalza. Lite e separazione inevitabile. Quindi tocca al fondo Clessidra di Claudio Sposito. Via questo, arrivano i russi di Rosneft. Crisi russa, Vladimir Putin improvvisamente ostile al patron Igor Sechin ed ecco spuntare la carta cinese.

Teodoro Chiarelli, La Stampa 21/3

 

Ma se la proprietà passerà di mano, la governance resterà ancora in quelle di Tronchetti fino al 2021. Il presidente della Pirelli avrà autonomia gestionale. Sede e tecnologie saranno ancora italiane Federico De Rosa, Corriere della Sera 21/3. Pons: «Buone cose sicuramente, ma è altrettanto evidente che al termine del quinquennio Tronchetti si farà da parte monetizzando la parte restante del suo investimento. E il simbolo della rinascita industriale di Milano, quella rappresentata dal grattacielo di Giò Ponti, rimarrà appannaggio di soci russi e cinesi o di chi subentrerà a loro».

Giovanni Pons, la Repubblica 21/3

 

Molti si faranno a questo punto una domanda: ma se la Pirelli è riuscita ad affermarsi nel mondo come azienda forte, perché mai Tronchetti ha deciso di venderla all’estero? Plateroti: «La risposta è facile: per l’entità dell’offerta, ovviamente, ma soprattutto per metterla in condizioni di crescere ancora di più, farla diventare parte di una realtà globale in cui possa svolgere il ruolo di predatore e non quello di preda».

Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 21/3

 

Tamburini: «D’altra parte, il capitalismo italiano è sempre stato un capitalismo senza capitali, protetto dai confini nazionali. Difficile reggere in tempi di globalizzazione. La scommessa è difendere il difendibile e mantenere le aziende radicate in Italia Fabio Tamburini, Corriere della Sera 21/3. Plateroti: «Un po’ come sta facendo Marchionne per la Fiat. Non tutti saranno d’accordo. Ma su questi temi è facile scegliere le scorciatoie, scivolando su posizioni moralistiche. L’Italia ha la possibilità di recuperare terreno, così come hanno dimostrato i grandi rilanci che hanno segnato la nostra recente storia industriale, come quelli di Pirelli o di Fiat. Basta non remare contro».

Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 21/3

 

E poi l’imminente ingresso della Chemical China in Pirelli è soltanto l’ultimo di una lunga serie di investimenti per svariati miliardi in imprese italiane di prima fascia. Nel 2014 si contano almeno 16 operazioni portate a termine, per un valore complessivo che sfiora i 6 miliardi di euro. E lo stock complessivo degli investimenti cinesi in Italia si aggira ormai sui 15 miliardi. Distaccando sia il Regno Unito fermo a 3,3 miliardi con 20 operazioni completate, che gli Stati Uniti che hanno finalizzato 44 acquisizioni per poco più di 2,9 miliardi (nel 2008 la Repubblica Popolare non era neppure tra i primi cinque Paesi acquirenti).

Filippo Buraschi e Andrea Pira, MilanoFinanza 21/3

 

A maggio scorso Shanghai Electric ha comprato il 40% di Ansaldo Energia dal Fondo Strategico Italiano per 400 milioni. A luglio State Grid Corporation of China ha preso il 35% delle reti infrastrutturali italiane del gas e dell’elettricità – una quota che dà diritto di veto – in cambio di due miliardi alla Cassa depositi e prestiti. Fubini: «Negli stessi mesi la banca centrale di Pechino ha fatto qualcosa di inusuale per lei. Sulle principali piazze finanziarie del mondo la People’s Bank of China compra regolarmente quote di grandi gruppi, ma sempre in quantità così piccole da restare invisibili. A Piazza Affari invece ha optato per partecipazioni appena sopra il 2%, la soglia alla quale scatta l’obbligo di venire allo scoperto, in tutte le principali società: Eni, Enel, Fca (ex Fiat), Telecom Italia, Prysmian. È stato come dire: “Guardateci, noi siamo qui”».

Federico Fubini, la Repubblica 21/3

 

La rosa dei nomi di possibili investitori d’oltre Muraglia si allunga di giorno in giorno. Si parla per esempio di Wang Jianlin, secondo uomo più ricco della Repubblica popolare. Chi invece è già entrato dalla porta principale è il magnate del colosso dell’immobiliare e dell’intrattenimento Dalian Wanda, che per 1 miliardo ha acquisito dal fondo Bridgepoint la Infront di Philippe Blatter (la cui branch italiana è guidata Marco Borgarelli). Wanda si è così garantita il controllo dei diritti tv del calcio europeo e italiano in particolare. Le incursioni nello sport e in altri settori come turismo, mattone e intrattenimento dimostrano quindi la volontà nella strategia «go global» promossa da Pechino di diversificare gli investimenti rispetto alle tradizionali aree dell’energia, delle materie prime e delle infrastrutture.

Filippo Buraschi e Andrea Pira, MilanoFinanza 21/3

 

Ma resta un dubbio di fondo, secondo Fubini: «L’Italia di oggi piace a investitori non particolarmente trasparenti, portatori di priorità influenzate dai loro governi, ma interessa molto meno a quei Paesi ai quali il nostro vuole somigliare. Forse il capitale nel ventunesimo secolo funziona davvero così. O forse sta solo all’Italia farlo funzionare in modo più intelligente anche per sé».

Federico Fubini, la Repubblica 21/3

 

a cura di Francesco Billi

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