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Il ritratto di una società che non sa più morire e quindi neanche più vivere. Rileggere Ottiero Ottieri

Tommaso Tuppini

Nel saggio "De morte", ripubblicato dalla casa editrice Utopia, la morte diventa lo specchio di una paralisi generale e profonda: una civiltà che ha fatto della vita una maratona programmata fino all’ultimo minuto è la stessa che, per sentirsi più sicura, rifiuta di fare i conti con la fine. 

Tra gli autori suggeriti alle scuole dalle linee guida ministeriali, ci sono sempre Calvino e Pasolini ma mai Ottiero Ottieri. Forse anche perché per anni i suoi libri sono stati introvabili. Ma è comunque un’ingiustizia. Ora li ripubblica la casa editrice Utopia. L’ultimo è De morte, uscito la prima volta nel 1997, saggio che sintetizza la vocazione eccentrica di uno scrittore appartenente a quella che lui stesso definiva la “famigerata famiglia degli intellettuali di sinistra”, ma analista non del futuro bensì di ciò che blocca ogni progresso: il dubbio ossessivo e la coazione a ripetere. Nel saggio, la morte diventa lo specchio di una paralisi generale e profonda: una civiltà che ha fatto della vita una maratona programmata fino all’ultimo minuto è la stessa che, per sentirsi più sicura, rifiuta di fare i conti con la fine. Rileggere queste pagine permette di riconoscere, dietro il tono spesso ironico, il ritratto di una società che non sa più morire, e perciò non sa più vivere, perché “il senso della morte è il più indispensabile al senso della vita”.

E’ come se Ottieri vedesse la collettività contagiata dalla depressione che fu la compagna della sua esistenza e alla quale diede voce ne Il campo di concentrazione, cronaca del ricovero in una clinica psichiatrica dove le interminabili giornate sono consumate dai dubbi più futili e insistenti. “Tendiamo a pensare, come i depressi, una cosa e il suo contrario. Siamo infatti spesso depressi. Siamo il sale della terra o le sue tarme? Siamo ambivalenti”. Per sottrarci ai dubbi, ci rifugiamo nella coazione a ripetere, prigione del nostro tempo: “gli uomini dicono sempre, specie nella nostra epoca, che vogliono il nuovo. In realtà essi non sono coscienti del loro immobilismo, dell’affetto che hanno per il vecchio e per la ripetizione, che dispensano sicurezza”. Davanti alla novità assoluta della morte, il dubbio e il conseguente attaccamento a ciò che è stato raggiungono il diapason. La società che ha imparato a parare ogni colpo, a un certo punto si trova di fronte all’unica cosa che non può calcolare, e il pensiero, abituato a dominare, si ripiega su se stesso, trasformandosi in ruminazione continua: “Non so se precipitarmi dentro le fauci spalancate della morte o centellinare l’attesa per un lento e maestoso ingresso”. La passione per la ripetizione diventa così una fragile diga contro l’indecisione, soprattutto davanti alla fine. Il superlaico Ottieri trova tregua anche nella scrittura e nella contemplazione del simbolo dove la lacerazione appare sopportabile: “Gesù sulla croce dà il simbolo del Su e Giù, con la testa e i piedi sofferenti, orribilmente sussultanti, insieme alla destra e alla sinistra delle mani, del di Qua e di Là, in un bipolarismo composto, verticale e orizzontale”. In un mondo dove “la vita è una tecnica” e “regnano gli specialisti del vivere, che non sono i bons vivants”, la morte sopravvive ostinatamente come ciò che manda in cortocircuito la macchina.

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