Ottiero Ottieri (Olycom)

la letteratura come mezzo

Il pensiero perverso di Ottiero Ottieri, magnifico intruso nella cultura italiana

 Matteo Marchesini

Alla riscoperta del pioniere del romanzo "industriale", che descrisse in maniera incisiva l’itinerario dei non pochi intellettuali che come lui sono emigrati da un centro Italia chiuso nella sua bellezza senza tempo agli avveniristici uffici milanesi. Alla riscoperta del pioniere del romanzo "industriale"

Nella storia letteraria del nostro Novecento, Ottiero Ottieri sembra quasi un intruso. Ed è ben strano, dato che ha attraversato tutte le tappe culturali tipiche della sua generazione: marxismo, freudismo, leitmotiv dell’alienazione, passaggio dalla narrativa a un’écriture informe, oscillazione tra umanesimo e fascino della tecnica. Ma c’è di più: Ottieri è stato un pioniere del romanzo “industriale”, e ha descritto in maniera incisiva l’itinerario dei non pochi intellettuali che come lui sono emigrati da un centro Italia chiuso nella sua bellezza senza tempo agli avveniristici uffici milanesi. In apparenza, insomma, dovrebbe essere un personaggio molto rappresentativo. Se non lo è, dipende dal rapporto insieme raffinato e brutale che intrattiene con la propria identità di scrittore e con le teorie di cui si serve.

Rispetto ai colleghi, la sua mente filosofica lo rende paradossalmente più pragmatico. Non si lascia suggestionare dai sistemi. Da socialista preferisce l’impegno sindacale alla dottrina di partito, e nella psicanalisi cerca una cura empirica: in quanto visioni del mondo, quelle di Marx e Freud gli sembrano “ideologie” o “razionalizzazioni” buone per i chierici. Ma soprattutto, ecco lo scandalo, anziché venerare la letteratura Ottieri la usa come mezzo. La forma ibrida dei suoi libri non deriva da una tendenza novecentesca al pastiche, bensì da un bisogno di “rem tene”, ovvero di andar dritti al punto, così forte da annullare i generi e quasi la fantasia. Il suo linguaggio resta sempre lucido, razionalista, dry; e la poetica allucinazione alla Piovene che talvolta produce si presenta come un effetto collaterale, non come un’aprioristica opzione di Stile. A imporgli questo contenutismo “neutro” è un dolore psichico che non lascia spazio alle fantasticherie estetizzanti.

 

Tutte le sue opere sono in fondo “referti”, come ricorda Edoardo Albinati nella postfazione a “Il pensiero perverso”, l’esordio lirico ottieriano del 1971 appena ripubblicato da Internopoesia. E si tratta di referti particolarmente preziosi, perché chi li compone non è un osservatore esterno ma un testimone immerso nell’ambiente rappresentato, anzi una di quelle cavie di solito ammutolite dall’esperienza che subiscono. Dal cuore della fabbrica, Ottieri ci ha parlato della fabbrica; e sprofondato nella patologia psichiatrica, ha provato a tracciarne sulla pagina il diagramma. Tra i due temi si collocano il trauma del boom, la perdita delle speranze rivoluzionarie, e la riconsegna dell’ex ragazzo nobile alla mondanità patinata di un jet set in cui tutto sembra possibile ma appunto perciò irreale.

 

Negli anni ’60-’70, al centro della scrittura di Ottieri si trova un Party indistinguibile da una Clinica. Muore il romanzo, e nascono i saggi narrativi dell’“Irrealtà quotidiana”, dove l’autore, con loica furia, tenta di mappare i labirinti della psiche. “Il pensiero perverso”, che apre il filone culminante nel “Poema osceno”, è la traduzione in versi di quei saggi, in particolare del tour de force michelstaedteriano del capitolo “La svolta a ‘U’”. Ma la nuova forma è solo uno strumento come gli altri. Ottieri non si definisce poeta, semmai “ruminante con cadenze”. E il ruminio riguarda sempre lo stesso soggetto narcisista, consumato dalla cronica riserva con cui si pone di fronte alle scelte della vita. Troppe sono ormai le strade aperte, e qualunque decisione gli appare dunque arbitraria. Così questo Io stagna immobile a esaurirle col pensiero, come se potesse fermare il tempo.

Ma “se sceglie si condanna, / la non scelta è dannata”: se agendo rimpiange l’alternativa, non agendo si sente escluso dalla realtà che aspira a divorare bulimicamente. Pretendendo di essere “onnipotente”, si rassegna di fatto all’impotenza. Questo soggetto che “la vigilia del dì di festa / batte contro il muro letteralmente la testa” vorrebbe restare “acquattato al di qua / della vita umana” per non soffrire. Eppure niente è più doloroso, nell’esistenza e nell’opera, della sua tattica di evitamento: “Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo / lasciatogli libero dal pensiero ossessivo”, ci avvisa il memorabile incipit. L’Io del “Pensiero perverso” è condannato a un’ininterrotta erezione cerebrale, alla monotonia di un’ansia “senza storia” (il che spiega perché non può essere un Io romanzesco), e a un disagio che non ha né la dignità di una malattia precisa né la dignità di un problema metafisico.

 

Nel suo falsetto arido, Ottieri sa restituire benissimo la consistenza vischiosa e insieme astratta di questa condizione bipolare, alternando l’aulico col pedestre (si va da “lunghesso” a “pirla”), e facendo cozzare i ritmi prosastici con i bisticci delle allitterazioni o delle rime interne da filastrocca, che riflettono la difficoltà del pensiero a staccarsi da sé. L’ambivalenza del soggetto si specchia quindi in quella della scrittura, che come suggerisce l’autore, e come spiega Demetrio Marra nella nota filologica, nasce dall’incapacità di scegliere sia tra prosa e verso, sia “tra la raccolta di poesie e il poemetto narrativo”. In sintesi: assenza di confini esistenziali, assenza di confini estetici, e paura di perdere a ogni istante un’occasione col risultato di perdere tutto. C’è qualcosa che somigli di più alla nostra odierna ipnosi da schermi e da vita virtuale, all’inferno del nostro narcisismo? Solo che Ottieri, a differenza di noi, non si perdona e non sublima niente: e così, oltre che un precursore, nella cultura italiana rimane ancora un magnifico intruso.
 

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