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Nostalgia canaglia!

La tradizione, la noia o le scosse di uno spettacolo. Perché si parla tanto di regia nel teatro d'opera

Federico Freni

Se il teatro d’opera vuole sopravvivere a se stesso (vizi e virtù, tutto incluso) è necessario saper guardare oltre la siepe del giardino di casa. Intercettando messaggi e linguaggi nuovi. Una splendida Salome in scena a Roma

La domanda se la pongono un po’ tutti dai tempi di Rossini: dove andremo a finire di questo passo? Da quando si è iniziato a scardinare il paradigma classico del melodramma (e quindi, a dirla tutta, forse anche un poco prima di Rossini), non v’è giorno che non si guardi indietro con malinconia. D’altronde, come ammoniva Kundera, la luce del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia: anche la ghigliottina. Nostalgia canaglia!

Se la domanda è vecchia, l’occasione, però, è recente: una (musicalmente e scenicamente) splendida Salome in scena qualche settimana fa al Teatro dell’Opera di Roma. Io, lo dico subito, credo che questo allestimento rientri a buon diritto nella categoria “spettacoli dell’anno”. Uno spettacolo, quello affidato alla regia di Barrie Kosky, certamente disturbante, dove si è preferito procedere per sottrazione, riducendo all’essenziale: il palcoscenico è buio, privo di scenografia, un unico fascio di luce (la luna, tanto evocata nella tragedia di Wilde) illumina volti e protagonisti, che entrano ed escono dal cono di luce. La testa del Battista appesa ad un gancio da macellaio ondeggia sul palco. Una tragedia del Novecento, una seduta di analisi. Cruda, disturbante. Troppo reale, insomma.

Dove andremo a finire di questo passo? Come faremo a custodire il sacro fuoco del melodramma? Allestimenti come quello di Kosky rovinano serate tranquille, inquinano il sonno dei giusti. Ma hanno un merito: mettono in moto le rotelle, invitando spettatori mediamente abulici a una riflessione. Perché l’alternativa, difronte a spettacoli come questo, è una sola: o li ami o li odi. Non esiste indifferenza. Io credo che uno spettacolo che non consenta di restare indifferenti, che ci obblighi a cercare il senso ultimo (o anche solo, banalmente, un senso), meriti per ciò solo il prezzo del biglietto. Ma difronte a questo buio, difronte alla scena nuda, dobbiamo chiederci con onestà se siamo pronti.

 

Siamo pronti ad accettare che veli, trine, pepli, fondali e chi più ne ha più ne metta, vadano in archivio? Siamo pronti a godere di una (sempre bella, peraltro) Tosca con le scene originali di 125 anni fa, e, nella stessa settimana, ad aprire la mente a qualcosa di nuovo? Oppure (vizio immarcescibile di tanti affezionati abbonati) preferiamo uscire da teatro sereni, magari anche un poco annoiati dall’ennesimo allestimento di repertorio, ma saldi nella certezza che Tosca, perdinci, si fa a Roma, a giugno del 1900, e se non c’è l’angelo, il cupolone, palazzo Farnese e tutto il resto, insomma, non è Tosca. Siamo pronti a essere disturbati, oppure preferiamo l’usato sicuro, il comfort-food del giorno o il plaid di casa (che pure, de minimis, non è una cattiva opzione).

Viviamo un tempo avaro di stimoli, chiuso nelle ridotte di una trincea culturale che fa della paura la propria cifra distintiva, fatichiamo ad accettare il nuovo, figuriamoci le novità. Ma se il teatro d’opera vuole sopravvivere a se stesso (vizi e virtù, tutto incluso) è necessario saper guardare oltre la siepe del giardino di casa. E’ necessario intercettare messaggi e linguaggi meno ordinari di quelli che conosciamo. Altrimenti si resti pure al museo: tranquillizziamoci che nulla cambierà, che sempre avremo l’angelo e il cupolone, che mai rischieremo di tornare a casa con testa e stomaco sottosopra, e con la stessa olimpica serenità ammettiamo pure che l’opera è morta. Tradizione e innovazione non sono alternative: sono due facce della stessa medaglia, due volti della luna. Ma chi teme l’innovazione, uccide la tradizione. Chi pensa di adorare il fuoco, sta in realtà solo custodendo le ceneri. Ecco, per tornare alla domanda, siamo pronti?

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