Yasmina Reza (gettyimages) 

La recensione

“James Brown si metteva i bigodini”: identità e follia nella pièce di Yasmina Reza

Marco Archetti

Sbaglia chi riduce l'opera di Yasmina Reza a un suo giudizio personale sul mondo. D'altronde è la stessa autrice a ribadirlo: nessun realismo

Peggio di non leggerla, solo leggerla così. Eppure sono anni che Yasmina Reza fa lo sporco lavoro per noi, mettendoci in guardia, indicandoci dove non guardare. E noi proprio lì guardiamo. È accaduto e sta accadendo anche con questo “James Brown si metteva i bigodini” (Adelphi, pag. 102, euro 12,00), copione di uno spettacolo andato in scena a Parigi alla fine dell’anno scorso. E’ accaduto e sta accadendo che se ne scriva come se lei, l’autrice, cioè la massima autorità in materia di sé stessa, non avesse detto, negli anni, cose tipo: “Non penso di aver nulla da dire al di fuori delle storie che scrivo.” Oppure: “Gli scrittori non sono saggi.” E ancora: “Gli scrittori non hanno una visione coerente della società, chi scrive fotografa il mondo secondo il proprio obiettivo personale, eppure si intervistano gli scrittori come se fossero degli intellettuali.” Infine: “Io difendo lo scrittore come non-intellettuale.”


Ma ecco che, a ogni suo romanzo o testo teatrale, instupiditi dagli strepiti che salgono dal cavedio su cui, volenti o nolenti, affaccia anche la nostra finestra, si scatena la lettura di Reza come se il suo impulso fosse quello che noi vorremmo in lei, l’impulso di impugnare la mazza per fare il cazziatone, di ammonire questo o quello e dirci la sua sul mondo, sulla politica, sull’ultima risibile polemica in agenda. Col solo risultato di trasformare la letteratura in una pistola ad acqua, buona per la frivola stagione balneare che è diventato il nostro discorso sulla letteratura. A questo giro Reza è stata vezzeggiata dagli anti-woke, ma la pochezza è la medesima di chi ne ha ispirato la lettura contrappositiva. In realtà, chi scrive letteratura non sta in quel cortile. E il genio letterario è deformante e ulteriore per definizione. Per il genio letterario il presente non è mai il presente e il tempo non è lo stesso tempo di quel tizio che non è un’aquila e lancia allarmi e firma appelli. Al genio letterario non frega niente di mettersi lì e consumarsi vertebre e cervello per usare la scrittura come uno striscione o come un bastone contro un passante che, per una serie di coincidenze, fa il deputato della Repubblica. 


In questa pièce Yasmina Reza torna a certi suoi personaggi per costruire una storia che, a partire dai coniugi Pascaline e Lionel Hutner racconta qualcosa di più profondo: un incubo in cui nessuno è più in grado di sapere chi è e come si debba comportare. Che significa stare al mondo? Come si fa a fare quel che dobbiamo fare? Gli Hutner sembrano, a tratti, eredi del mondo di Ionesco, con quel modo di dirsi le cose come se non stessero dicendo davvero quel che stanno dicendo ma alimentando l’uno nell’altra l’illusione di dire e, peggio, di comprendersi. Il figlio Jacob, ricoverato in una clinica, è convinto di essere Céline Dion e in quanto tale vive, parla e si comporta. Il padre sembra inane (ma mentre passeggia nel giardino della clinica gli scappa una perla: “Non c’è peggior raggiro della natura”) e la madre sembra stupida (“cucciolo” e “cucciolotto”, così si rivolge ossessivamente al figlio, ma è tutto amore simulato e terrorizzato emblema di sé stesso, giacché non sa più nemmeno come chiamarlo). Nel frattempo Jacob fa amicizia con Philippe, un nero che però è un bianco, ed entrambi sono in cura presso una psichiatra che sfreccia lungo i corridoi dell’ospedale su un monopattino.

Perché ridurre questa storia a un giudizio personale sul mondo? Tra l’altro, a diffidarcene, nelle note di scena Reza ribadisce: nessun realismo, nessun realismo, nessun realismo. Quelle note sembra non averle lette nessuno, così come nessuno sembra aver notato due scene. Una è senza battute – siamo a teatro, non tutto accade nelle parole – ed è quella in cui Philippe e la psichiatra vanno in monopattino: straziante e bellissima. L’altra è quella in cui il padre cerca di imprigionare il figlio dentro un hula hoop: straziante e straziante. Nell’unica scena in cui i personaggi sono tutti insieme, la comicità angosciosa di questa commedia si libera in tutto il suo fulgore. “Dove bisogna andare, se si vuole sognare?” si chiede a un certo punto il nero-bianco Philippe. Alla fine si incatena a una pianta e ci scrive un blues.
 

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