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Il racconto

L'ostetrica che ad Auschwitz fece nascere tremila bambini

Davide Perillo

La storia poco nota di Stanislawa Leszczynska, che neanche Mengele, l'Angelo della Morte, osò toccare. È in corso il processo di beatificazione

Lo hanno chiamato Adam. Non era il primo a venire al mondo lì, nelle baracche del campo: ma lei chiese alla madre di battezzarlo così, “come un segno di vita”. Tra quel parto e la fine dell’orrore, due anni dopo, nel lager più grande del Reich sarebbero nati più di tremila bambini. E a portarli alla luce fu quella donna minuta e forte, dalla faccia tonda e gli occhi capaci di mettere serenità: Stanislawa Leszczynska, l’ostetrica di Auschwitz.  Non è una storia molto nota, fuori dalla Polonia. Riaffiora ogni tanto, di solito nelle pieghe del Giorno della memoria, e poi torna negli scaffali. Ma forse vale la pena ripercorrerla oggi, a cinquant’anni dalla morte. Parla di qualcosa “che in mezzo all’inferno, non è inferno”, per dirla con Calvino. 


Nata a Lodz nel 1896, la Leszczynska si sposò a vent’anni con Bronislaw, tipografo, e si diplomò in ostetricia a 26. Allo scoppio della guerra, i Leszczynska non si tirarono indietro. Iniziarono ad aiutare gli ebrei. Il marito stampava documenti falsi, il figlio maggiore li faceva arrivare a destinazione. Fu una spia a far saltare tutto. I due uomini riuscirono a sfuggire alla Gestapo (Bronislaw finirà ucciso nella rivolta del Ghetto di Varsavia), Stanislawa si ritrovò ad Auschwitz con la figlia, mentre altri due figli venivano internati a Mauthausen. Entrò nel lager il 17 aprile del ’43, matricola 41335. Ci trovò morte e miserie descritte così, in un quadernetto che anni dopo diventerà prezioso: “I dormitori erano pieni di infezioni, fetori e ogni genere di vermi. Topi ovunque. Molti erano grossi come gatti. Mordevano non solo le donne, ma anche i neonati”. Nell’“ospedale del campo” c’erano, in media, 1.000-1.200 malati. Ne morivano una dozzina al giorno. Poche file più in là c’era il Blocco 10: quello dove Josef Mengele, l’Angelo della Morte, faceva i suoi esperimenti atroci sui prigionieri. Una baracca era il regno di Schwester Klara, sorella Klara. Era anche lei un’ostetrica, finita nel lager perché aveva ucciso un bambino. Lì le avevano chiesto semplicemente di fare altrettanto. E lei obbediva, meticolosa: i bimbi, appena nati, venivano strappati alle madri e affogati in un barile. “Le mamme potevano sentire il gorgoglìo e il rumore dell’acqua”, racconterà la Leszczynska: “Poi vedevano i corpicini buttati via, tra i rifiuti”. 


Quando sorella Klara si ammalò, nel maggio del ’43, lei chiese di prendere il suo posto. Era riuscita a portarsi dietro il diploma, nascosto chissà come in un tubetto di dentifricio. Quel pezzo di carta ripiegato in mille le permise di iniziare il suo rimpiattino tra la vita e la morte.  Le donne partorivano sdraiate su una stufa di mattoni. Intorno, una trentina di brande fetide, e sporco, blatte, topi. Fango sul pavimento, appena pioveva. L’acqua doveva cercarsela lei, tra le baracche. Non c’erano ferri né medicine. Eppure quei bimbi venivano al mondo, uno dopo l’altro. Erano lavati, avvolti in stracci o carta di giornale. Si sentiva il loro pianto. Potevano essere chiamati per nome e abbracciati dalle madri. “La Natura sfidava l’odio e lottava per i suoi diritti, attingendo a una riserva di vitalità sconosciuta”, annoterà nel suo quaderno. La regola restava quella di prima: eliminarli, subito. Lei, semplicemente, si rifiutò: “Non si uccidono i bambini”. Lo disse anche a Mengele, che le gridava in faccia “Befehl ist Befehl!”, un ordine è un ordine. “Non so perché non la uccise, dirà il figlio Bronislaw anni dopo: “Nessuno lo sa”. Stanislawa Leszczynska li ha battezzati quasi tutti, quei bimbi: un gesto che rileggerlo oggi può fare inarcare sopraccigli, ma in quel buco nero era un grido, a Dio e alla vita. Erano nati e quindi c’erano, per sempre. Anche se per molti di loro l’esistenza sarebbe stata un soffio: dopo qualche ora, o giorno, il macello riprendeva il suo corso. Il barile d’acqua. O le camere a gas, in braccio alla madre (“Ricordo una donna di Vilnius”, annota lei: “L’avevano chiamata per andare al crematorio. Avvolse il suo bambino in un panno sporco e lo strinse al petto. Le sue labbra si muovevano in silenzio, come se volesse cantare una ninna nanna. Ma non aveva la forza, e non uscivano parole”). Oppure, la fame. “La pelle dei bambini prima di morire diventava sottile come una pergamena. Potevi vedere le ossa, i tendini, le vene…”. Si stima che dei tremila bimbi nati grazie alla Leszczynska (la cifra l’ha data lei stessa, ma si combina bene con studi e documenti), circa 300 siano stati portati nel brefotrofio di Naklo per essere “denazionalizzati” e affidati a famiglie tedesche: erano quelli con tratti ariani. A molti di loro l’ostetrica riuscì a fare un piccolo tatuaggio sotto l’ascella, per lasciare alle madri la speranza di poterli ritrovare. Una trentina, invece, si sono salvati. Erano ancora lì quando i russi arrivarono ad Auschwitz, nel gennaio del 1945. Mengele era scappato da dieci giorni. 


Leszczynska lasciò il campo il 2 febbraio. Si riunì agli altri figli, sopravvissuti. E tornò a Lodz, a fare il suo mestiere. Non parlava molto e non raccontava volentieri. Ci vollero parecchie insistenze per convincerla a pubblicare il suo diario. Lo fece nel 1965. Titolo: Rapporto di un’ostetrica di Auschwitz. “Lo offro in nome di coloro che non hanno potuto parlare al mondo dei torti subiti: in nome della madre e del bambino”. Cinque anni più tardi, in una cerimonia a Varsavia, incontrò alcune delle donne che avevano partorito nel lager, con i loro figli. Una di quegli ex bambini era Ewa, nata il 20 dicembre del 1944 da Jadwiga Machaj, matricola 87263. Era stata l’ostetrica, di nuovo, a suggerire il nome: “Ewa, perché sarà l’inizio della vita”. Stanislawa Leszczynska è morta l’11 marzo del 1974. Al funerale c’erano migliaia di persone. Nel 1992, sotto Giovanni Paolo II, si è aperto il processo di beatificazione. È ancora in corso. 

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