Letture
E se tutto quello che pensiamo della politica moderna fosse sbagliato?
L'epicureismo è meglio dell'aristotelismo. A rifletterci sopra, e a spiegarci perché, è Raimondo Cubeddu nel suo nuovo libro di oltre seicento pagine intitolato "Epicureismo e Individualismo. Per una storia della filosofia politica" (Rubbettino)
Immaginiamo per un attimo di leggere un libro dal quale risulti che gran parte di ciò che fino a oggi abbiamo pensato della politica in generale e della politica moderna in particolare va rivisto, che l’idea aristotelica dell’uomo come “animale politico” è dannosa oltre che sbagliata, che l’epicureismo è da preferire all’aristotelismo se si hanno a cuore le preferenze individuali, che il sistema degli scambi può produrre scelte diverse e più rispettose dell’umana libertà di quanto siano le decisioni politiche di un qualsiasi sovrano e, infine, che ugualmente sbagliata è l’idea di una modernità politica come secolarizzazione di idee cristiane. Immaginiamo inoltre che tutto questo ci venga detto nell’intento di mostrare l’importanza del pensiero di Epicuro per la cosiddetta tradizione del “vero” individualismo, così definito da un autore, Friedrich von Hayek, che di Epicuro non si è occupato affatto, pur sentendosi profondamente influenzato da neo-epicurei come Mandeville, Hume o von Mises, e che a sostegno della derivazione epicurea dell’individualismo moderno si faccia riferimento a un autore, Leo Strauss, che certamente si è occupato di Epicuro, ma che altrettanto certamente non era un individualista. Ce n’è abbastanza, credo, per essere quanto meno frastornati. Eppure proprio su questi temi Raimondo Cubeddu ha imbastito magistralmente un libro di oltre seicento pagine, in uno stile che invero poco si cura di andare incontro al lettore, ma non per questo meno affascinante, profondo e provocatorio: “Epicureismo e Individualismo. Per una storia della filosofia politica” (Rubbettino).
Detta in estrema sintesi, la tesi principale del libro è che l’epicureismo è “il vero padre dell’individualismo”, in particolare di quell’individualismo che, grazie a Bruno Leoni, Hayek, Mises e Menger e senza che tutti ne fossero consapevoli, ha trovato secondo Cubeddu nella cosiddetta Scuola austriaca il suo sviluppo più fecondo. Di questi autori, forse soltanto Leoni e Mises hanno una certa consapevolezza della connessione che la teoria della nascita inintenzionale delle istituzioni sociali, il contributo più importante della Scuola, ha con la tradizione epicurea, in particolare con la dottrina del contratto quale soluzione di uno dei problemi più ostici della cultura greca: il rapporto tra nomos e physis, diciamo pure, tra le leggi degli uomini e quelle divine della natura, tra ciò che è artificio umano e ciò che è natura.
A differenza di Platone e Aristotele che costruiscono la loro teoria etico-politica mantenendo una sorta di irriducibile tensione tra i due termini, Epicuro sceglie una via diversa, più moderna verrebbe da dire, facendo coincidere il diritto con i patti di reciproca utilità che gli uomini stipulano per impedire comportamenti dannosi e limitare in questo modo l’endemica incertezza dell’esistenza. Il diritto, per Epicuro, è naturale in quanto è utile. Come recita una delle sue “Massime” più famose e più discusse, “Il diritto secondo natura è il simbolo della sua utilità allo scopo che non sia fatto né ricevuto alcun danno”. Con le parole di Cubeddu, non esiste dunque qualcosa “che sia per natura ‘buono’ per tutti, in quanto non esiste qualcosa che sia naturalmente utile per tutti, ma soltanto cose che sono utili e perciò buone in casi specifici, da accertare singolarmente”. Potremmo anche dire che non è la natura a indicare che cosa è il diritto, quanto piuttosto il desiderio dell’uomo di risolvere i suoi problemi in condizioni che sfuggono al suo controllo. Nel caos atomistico epicureo non esiste un mondo finalisticamente ordinato e la conoscenza degli uomini è sempre limitata, a maggior ragione la conoscenza delle faccende umane, sempre alle prese queste ultime con incertezze e imprevedibilità di ogni genere, anche quando gli uomini effettuano scambi reciproci e stipulano patti per limitarne in qualche modo la portata.
È da qui che scaturisce, secondo Cubeddu, il contributo più importante di Epicuro alla teoria della nascita inintenzionale delle istituzioni sociali, così come ci viene presentata nella famosa “Epistula ad Erodotum”. Non posso presentare nel dettaglio il contenuto di questa lettera, ma il succo che qui interessa è un po’ il seguente: riferendosi all’evoluzione della prima e più importante istituzione sociale, il linguaggio, Epicuro mostra come esso nasca da un fenomeno naturale, il fonema, che successivamente “la ragione perfezionò aggiungendo nuove scoperte a ciò che era indicato dalla natura”, a seconda dell’utilità che ne traevano i diversi popoli. Dunque, di nuovo, la natura non insegna, ma viene istruita e “costretta dai fatti”. Quanto agli uomini, essi finiscono per trovarsi sempre nella condizione di coloro che non creano le istituzioni, ma semplicemente le trovano, le modificano e le perfezionano. Come dice Cubeddu, la perenne interazione dell’uomo con la natura “non ha un fine, non è un processo teleologico iscritto nella stessa natura o attribuitogli da una qualche divinità o mente superiore, ma è piuttosto un continuo movimento generato dal desiderio dell’uomo di risolvere i suoi problemi con strumenti limitati e da cause accidentali. L’evoluzionismo culturale spontaneo di cui Hayek parla in varie opere rappresenta e ripropone così, inconsapevolmente, quei caratteri che Epicuro aveva attribuito all’origine delle vicende umane e che vengono espressamente richiamati da Mendeville e, senza esplicitarne la fonte, da Menger, per essere poi sviluppati e sistematizzati da Hayek”.
Chi scrive non è del tutto convinto che per condividere il carattere spontaneo, non intenzionale dell’evoluzione sociale, quindi una decisa avversione per qualsiasi forma di costruttivismo sociale, nonché una certa fiducia negli scambi e nella cooperazione tra individui senza alcuna pretesa di realizzare fini superiori, bensì soltanto una vita il più possibile decente, combattendo in questo modo la scarsità endemica di un mondo incerto, si debba necessariamente condividere anche l’atomismo epicureo. Non nego che Cubeddu, sulla scia di Strauss, ha più di una ragione a mostrare le radici epicuree di certo individualismo moderno, certamente ateo e non riconducibile a idee cristiane secolarizzate. Credo tuttavia che i suddetti temi, assai cari a Cubeddu e ai suoi amati austriaci, divenuti grazie a Cubeddu cari anche a me, possano essere facilmente inglobati e addirittura esaltati proprio dall’antropologia cristiana, nonostante l’ateismo di chi li ha elaborati.
Antifascismo per definizione