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Il Foglio Weekend

Sta meglio Vittorio Cecchi Gori, il Grande Gatsby del cinema italiano

Michele Masneri

Storie, amori e leggende del produttore cinematografico. Più degli Oscar e dei fallimenti però la sua storia è costellata dalle case

Sembra che stia meglio Vittorio Cecchi Gori, il Grande Gatsby del cinema italiano, ricoverato nei giorni scorsi in un ospedale romano, prima per un ricovero di routine e poi trasferito in reparto intensivo. Così raccontano gli amici, e dunque tanti auguri Vittorione, colui che è riuscito a trasformare in oro, e poi in polvere, tutto quello che toccava. Il cinema, e i cinema nel senso di sale, tantissime; i tre Oscar, la televisione con Telemontecarlo, e poi ancora il calcio con la Fiorentina, la politica col seggio senatoriale, poi tutto perduto, tra infarti, quattro arresti, cento film prodotti. Perquisizioni, avventure e tanta tanta umanità.  

Gli auguriamo dunque di tornare presto nella sua casa romana, e le case, come sempre, sono fondamentali nel raccontare le storie delle persone. Quella di Monti Parioli, resistita ai pignoramenti e ai vent’anni di cause  matrimoniali con Rita Rusic che in confronto Margherita Agnelli è un agnellino, i Totti dei dilettanti. L’attico fatale, comprato dal padre Mario coi proventi del “Sorpasso” sorge in quel quartiere un tempo feudo di cinematografari vicino alla casa di un’altra leggenda, Audrey Hepburn (ma il documentario in circolo su Netflix segnala che la diva lì ci passò anni infelici, con il marito dottore Andrea Dotti molto libertino e le sciure romane pettegole e invidiose). Da Cecchi Gori andammo in pellegrinaggio con Andrea Minuz cinque anni fa quando il sommo presentò anche lui un documentario, dedicato a sé stesso, a un gruppo di giornalisti (e poi proiettato alla festa del Cinema di Roma che lo omaggiò, giustamente), ma in quella casa però atmosfera, più che da Grande Gatsby, da “Grey gardens”: infissi con vetri scheggiati o mancanti, un dondolo cigolante da cui si vedeva tutta Roma, camerieri filippini scalzi e signorine che vagavano senza meta; e avvocati in completi neri lucidi.  E in una nicchia un tapis roulant, impolverato, col filo di alimentazione staccato. Chissà che party, all’epoca d’oro, pensammo, in quella terrazza dove pareva di stare in barca, su uno sperone tra i palazzi bianchissimi che guardano Roma dall’altra parte rispetto a quella ricercata dai turisti. Il palazzo ha mosaici e dettagli modernistici che pare puro Rio de Janeiro, quartiere Leblon Alto.  

A un certo punto ai giornalisti venne offerta, in quella strana conferenza stampa casalinga, tra le foto delle star e i David, per continuare nella surrealtà, una gran torta, con una glassa zuccherosa, rosa, e in mezzo tre statuette che rappresentavano gli Oscar, e ci sembrò una trovata un po’ grottesca mettere dei simil-Oscar, in quella che da conferenza stampa si era trasformata in festa di compleanno per bambini. Ma erano invece i veri Oscar, scoprimmo, che sprofondavano nel pan di spagna e rimandavano i bagliori del tramonto romano:  quelli vinti per “Mediterraneo”, “La vita è bella” e “Nuovo Cinema Paradiso”.  E tra quella luce romana e gli Oscar eravamo subito stati catapultati a Hollywood, Sunset Boulevard, perché tra le tante esistenze di Cecchi Gori c’è stata anche quella a stelle e strisce: a un certo punto aveva infatti ben due società americane, la Cecchi Gori Pictures, la Cecchi Gori Usa e pure un cinema, il “Fine Arts Theatre” a Beverly Hills, comprato negli anni Novanta. Era stato uno dei leggendari cinema losangelini art déco, inaugurato nel ‘36, e su quei sedili il nostro fece allenare Benigni per quella famosa camminata trionfale sugli schienali, il seat crawling che stupì il mondo nel ‘99 al suono di “Robbbbertooooo”. Poi, ceduto anche quello.   

Quante leggende, “what if”, porte scorrevoli del destino a un certo punto tutte prese nel verso sbagliato. Cecchi Gori ci raccontò che in uno dei tanti voli intercontinentali da Fiumicino aveva buttato giù un soggetto: “Era una storia che ruotava attorno ai sette peccati capitali, con un taglio comico, intorno a ogni peccato si sviluppava un racconto”; arrivato a Los Angeles ne aveva parlato subito coi colleghi americani, poi passò il tempo, come succede, lui se ne  dimenticò,  finì che quelli ci avevano fatto “Seven” con Brad Pitt e Kevin Spacey. “La commedia qui non funziona, meglio farci un thriller”, avevano detto, gli uomini di Hollywood. Chissà se è vero; però lui non è  un mitomane: è vero che a un certo punto ebbe un impero; il calcio, la tv, la library di cinema, e poi viene giù tutto, perché lui è un avventuriero della vita, si fida troppo, sogna troppo, si diverte troppo. 

Più degli Oscar e dei fallimenti, la sua storia è costellata dalle case. Oltre a quella dei Parioli c’era naturalmente quella di Sabaudia, la nostra Newport, nel miglio d’oro tra le ville di D’Agostino e di Malagò. E anche lì “villa Vittoria”, dedicata alla figlia, a un certo punto finì all’asta, dopo i rovesci. La ricomprò  una nostra amica russa. E’ una delle poche di quella spiaggia ad avere la piscina, piscina tra l’altro singolare dalla strana forma trilobata. C’era chi diceva in foggia di giglio fiorentino, chi di più prosaico fallo. La casa era finita nella micidiale lite giudiziaria con l’ex moglie Rita Rusic. Al passaggio di proprietà era stato rinvenuto anche uno stuolo di servitori cecchigoriani che, non venendo più pagati da anni, avevano occupato l’immobile, stabilendosi nel giardino lussureggiante tipo tempio Inca. Il Circeo poi è stato il teatro di uno  degli ultimi arresti di Cecchi Gori (tre Oscar, quattro arresti). Nell’estate 2011 era in barca verso Ponza di fronte, quando una motovedetta della Capitaneria di Porto lo ferma per uno dei tanti fallimenti, questa volta della FinMaVi, la finanziaria di famiglia. L’ordine di arresto, pare, arriva da un impiccio o tribunale della California: e di nuovo siamo a cavallo tra Los Angeles e la Pontina, perché la statura di Vittorione Cecchi Gori è troppo grande per l’Italia, avrebbe meritato una Hollywood in grado di contenerlo. Dei Selznick, dei Meyer. 


Vittorione voleva essere pure un antiberlusconi, a un certo punto, un tipo differente di tycoon (toscano e di sinistra, ma con molte passioni in comune con il milanese). Con B. entrò prima in società costruendo la Penta Film, poi ci litigò di brutto, e così scese pure in campo,  convinto da D’Alema a comprarsi Tmc e Videomusic. Perderà tutto, sommerso di debiti, e pure la Fiorentina che finisce ai Della Valle.  “Non so se in Italia esista qualcuno che sia stato più truffato di me”, dichiara lui stremato.  E   spogliato di tutto, mentre “le croate” come venivano chiamate la moglie Rita Rusic e la di lei sorella, si occupavano dei conti, e altri imprenditori dell’audiovisivo si approfittavano di un carattere alla fine ingenuo. 

 

Il padre molto patriarcale Mario lo chiamava “el mi’ bischero” e la mamma era la silente Valeria. Carlo Verdone, amico fedele, raccontò di esser stato affettuosamente sequestrato per 15 giorni  a Bali dalla coppia produttrice toscana; perché dopo il successo di "Bianco Rosso e Verdone" Mario Cecchi Gori voleva assolutamente che l’attore firmasse un’esclusiva con lui e nessun altro (e nacque “Borotalco”). In vacanza  lei fumava e taceva, taceva e fumava, finché dopo due settimane di silenzio, avvistò un tucano, e solo alla vista dello strano uccello, lei si rianimò: “il tuhano”, “il tuhano”. Poi ripiombò nel silenzio. 
 

Crebbe all’ombra del su’ babbo, Vittorione, che aveva creato i grandi film del dopoguerra, a partire dal “Sorpasso”, appunto, quel film che ha generato tutto l’immaginario del road movie sull’Aurelia con due caratteri opposti, il Bruno Cortona- Gassman supremo eroe-cialtrone, e il povero Roberto Mariani-Trintignant passivo e ingenuo; e Vittorio è sempre stato tutti e due questi personaggi in uno, la grandeur e l’ingenuità.  Si sa che “Il Sorpasso” ebbe un finale soffertissimo e combattutissimo. Dino Risi, il regista, voleva che Gassman morisse dopo la  corsa sull’Aurelia. Il produttore Mario Cecchi Gori assolutamente no. Alla fine si decise: se c’è il sole giriamo il finale, sennò ce ne torniamo tutti a Roma e non si fa l’incidente. Uscì il sole e Roberto Mariani ci lascia le penne, lanciando un sinistro presagio sulle sorti del boom. 


Il boom di Cecchi Gori figlio corrispose con l’acquisto di un altro appartamento romano, quello famoso “dello zafferano”. A piazza Borghese, dove stanno il circolo della Caccia, e l’ambasciata di Spagna, oltre ai principi Borghese antichi proprietari. E quello Cecchi Gori lo comprò ai tempi della massima grandeur appunto negli anni Novanta, e ai tempi dell’amore con Valeria Marini. Ma nel 2011 dopo vari passaggi finisce a un altro produttore larger than life, Pietro Valsecchi, che oggi con la moglie Camilla Nesbitt l’hanno trasformato in casa e collezione mirabile. Ma ai tempi cecchigoriani, il solito format: dopo i fasti, strani furti, perquisizioni, sequestri da commedia all’italiana. Teatro dell’assurdo, tra Polanski e Enzo Salvi (mamma mia come sto!). C’è appunto la famosa storia dello zafferano: il 5 luglio 2001 la polizia arriva per cercare dei documenti, e impone di aprire la famosa cassaforte di casa. Vi trova 8 grammi di cocaina. Cecchi Gori sostiene che sia zafferano (più avanti dirà invece che sapeva benissimo cos’era, e che però stava passando un periodaccio). Insomma, quello su Cecchi Gori sì che è un documentario che vorremmo vedere (ma tempo fa il suo amico Marco Risi ne progettava uno).

 

Capitolo donne, c’è appunto Rita Rusic con le “croate”: incontrata sul set di “Attila Flagello di Dio”, con Abatantuono. “Lei cavalcava nuda, potevo non innamorarmene”, disse Cecchi Gori. Poi lui a spassarsela a Los Angeles, anche, si dice, con la carta di credito, e la cognata che controllava la contabilità a coglierlo sul fatto.  Con Rusic i due figli Mario e Vittoria. E a lei aveva lasciato generosamente nel ’99 un'altra casa fatale, il celebre attico di via Platone nel quartiere Prati, detto il Cremlino delle Croate. Salvo poi rivolerlo indietro, e chiamare i carabinieri, perché ci sono i ladri, e i carabinieri scoprono invece trattarsi di parenti, di lei.

 

Con Valeria Marini, botte da orbi reciproche ma poi un affetto che è durato sempre e ancor oggi, e lei era ricomparsa a uno degli ultimi compleanni, e gli è vicina in questi giorni di sofferenza. E poi l’amore giovanile per Maria Grazia Buccella, indimenticabile protagonista di “Basta guardarla”, geniale pellicola che racconta l’ascesa nel mondo dello spettacolo di una contadina ciociara che tra mille avventure, mentre intravede finalmente il  successo, si abbandona invece all’amore. “Poteva essere una stella ed è rimasta un meteorismo!”, dice di lei un personaggio del film, in una definizione che avrà divertito certamente anche Vittorione.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).