Dicembre 1994 Russia Cecenia Guerra Civile, la folla davanti al parlamento Ceceno (Archivio Storico LaPresse) 

un libro-diario per Sellerio

In principio fu la Cecenia. Le cronache di Sofri da Grozny parlano anche di Kyiv

Francesco M. Cataluccio

Un libro di ricordi e riflessioni sotto forma di diario racconta i due viaggi dell'autore nella terra piegata da Putin. Una brutalità che è stata testimoniata da pochi e che l’occidente ha  fatto finta di non vedere

C’è una barzelletta, spesso ricordata da Adriano Sofri, che fa capire bene la baldanzosa sfrontatezza del popolo ceceno: quando ci furono i conflitti sul confine tra Unione Sovietica e Cina, i dirigenti sovietici chiamarono i capi dei ceceni e dissero loro che bisognava dare una lezione ai cinesi. “Ci pensiamo noi”, risposero i ceceni, senza esitazioni. Ma, nell’uscire, si arrestarono un attimo, si voltarono e chiesero: “Quanti sono questi cinesi?”. Fu loro risposto: “Più di un miliardo…”. Al che il capo ceceno: “E dove li seppelliremo tutti?!”.

I ceceni sono tradizionalmente un popolo fiero, bellicoso, ostile ai russi, attaccato alle proprie antiche usanze musulmane, come ben li raccontò Lev Tolstoj nel romanzo “Chadži-Murat” (1912). Chi ricorda le foto dei capi ceceni, con i volti abbastanza truci, avrà notato anche una certa naturale predisposizione all’ostentazione volgare, accentuata dal potere. Le nuove autorità cecene, come efficacemente le descrive Sofri: “Sono vestite come uno si immagina i magnaccia di Marsiglia: grandi cappelli simil-Borsalino, scarpe a stivaletto, generose di metallo, cappottoni di pelle, sciarpe bianche, anelli grossi, orologi d’oro fermacravatte e brutte cravatte”. Un mondo profondamente maschilista dove le donne sono le figure più interessanti ed eleganti: stanno tutte assieme, separate, discrete e orgogliose, “sanno che la loro società dominata dai maschi è brutta e ingiusta, pensano che la vita vera arriverà nell’aldilà”.

La vicenda cecena, che ha insanguinato per più di un decennio il Caucaso, è stata dimenticata dopo la “normalizzazione putiniana” e l’assassinio a Mosca (il 7 ottobre 2006) della coraggiosa giornalista russa, di origine ucraina, Anna Politkovskaja, che aveva raccontato i crimini commessi dall’esercito russo e dai loro complici. Eppure molte delle tragedie dell’ex Unione Sovietica sono iniziate allora, perché proprio sulla “risoluzione violenta del problema ceceno” Vladimir Putin ha costruito la sua iniziale fortuna politica con la minaccia: “Vi staneremo fin dentro i cessi. E con questo, l’argomento è chiuso”. E’ quindi bene ricordarsi che “C’era una guerra in Cecenia”, come Adriano Sofri ha voluto intitolare il suo bel libro di ricordi e riflessioni, sotto forma di un diario di viaggio, che è possibile pubblicare oggi (presso Sellerio) senza compromettere nessuno: “Perché quasi tutti i protagonisti che conobbi allora sono morti” (i loro destini vengono riassunti a pagina 210).

Oggi la Cecenia è un paese “normalizzato” governato da un satrapo violento (l’ex ribelle Ramzan Kadyrov). Dal 1994, attraverso due guerre che hanno insanguinato il Caucaso, la Russia ha piegato le aspirazioni di indipendenza dei ceceni. Tutto era iniziato nel novembre 1991 quando Džochar Dudaev proclamò l’indipendenza della Cecenia, rifiutando il patto federativo con la Russia. Nel dicembre 1994 Boris Eltsin invase la Cecenia e, dopo tre mesi di violentissimi combattimenti, riuscì a conquistare la capitale Grozny. I ribelli si ritirano sulle montagne inaugurando una guerriglia sanguinosa che si concluse soltanto con un fragile accordo di pace (il 31 agosto 1996) che riconosceva di fatto l’indipendenza della Cecenia. Il bilancio fu: circa 80.000 ceceni e 4.000 russi, la maggior parte delle città distrutte, morti e mezzo milione di profughi. E questa fu la cosiddetta “Prima guerra cecena”. Come spesso accade, poi i ceceni iniziarono a combattersi tra loro. Il presidente eletto Aslan Maskhadov dovette far fronte, oltre che alle continue provocazioni russe, al fatto che alcuni gruppi ribelli, guidati da Shamil Basaev, nell’estate del 1999, sconfinarono nel Dagestan e proclamarono una Repubblica islamica indipendente e in varie città della Russia si verificarono gravi attentati terroristici, attribuiti ai ceceni. Così il 1 ottobre 1999 iniziò la “Seconda guerra cecena”: l’esercito russo prese rapidamente il controllo del paese, radendo al suolo la capitale Grozny e compiendo brutali massacri. A questo seguirono otto anni (fino al 16 aprile 2009) di attentati e violenze terribili in un misto di follia terroristica cecena e cinica strategia della tensione da parte dei russi e dei loro lacchè:  come l’azione suicida e il sequestro di 750 persone nel Teatro Dubrovska di Mosca, risoltosi con l’uso del gas nervino da parte delle forze speciali russe (ottobre 2002); l’attentato con 40 morti nella metropolitana di Mosca (febbraio 2004) e la strage nella scuola di Beslan (settembre 2004). 

Adriano Sofri compì in Cecenia due viaggi nel 1996: come reporter per l’Espresso e il programma televisivo “Mixer” (febbraio-marzo) e poi, tra settembre e dicembre, per mediare con successo la liberazione di tre volontari italiani (Augusto Lombardi, Giuseppe Valenti, Sandro Pocaterra) rapiti da banditi ceceni. Nel secondo viaggio, Sofri mostrò ai suoi amici ceceni la cassetta del documentario da lui girato a febbraio: assieme commentano le immagini e fanno la conta di coloro che, nel frattempo (sei mesi!), sono morti e di quelli che sono sopravvissuti. Quando c’è una guerra, dice Sofri, “basta un giorno e una notte per stringere legami fra gli umani che altrimenti sarebbero impensabili, o chiederebbero anni e anni”. Lui è un viaggiatore empatico: vive e dorme tra la gente e sperimenta direttamente i “malintesi culturali” e gli arbitri linguistici. Approfitta dell’ospitalità, generosità e ingenuità dei ceceni. Non giudica ma annota tutto con curiosità e ironia, pur nello spettacolo orrendo delle violenze e delle devastazioni: “Si va in Cecenia come a un doppio incontro fatale: quella con un’assurda guerra di sterminio condotta da una grande potenza spaventata contro un piccolo popolo coraggioso, e quello col Caucaso, culla dei miti delle leggende e delle lingue dell’umanità”. In questa sorta di viaggio all’Inferno il suo Virgilio è il robusto trentaseienne  Salaudi, conosciuto sullo scombiccherato aereo da Mosca a Grozny, membro di un clan importante, i cui antenati, secondo una leggenda, incatenarono un diavolo maligno e quello per vendetta ha condannato tutti i maschi a morire prima di compiere i quarant’anni. 

Per tutto il diario il confronto con quello che Sofri ha visto e vissuto a Sarajevo è continuo. In Cecenia egli ritrova una situazione simile a quella che aveva osservato direttamente per tre anni in Bosnia, a Sarajevo (si veda il suo libro “Lo specchio di Sarajevo”, Sellerio 1997). E, nella prefazione, sostiene che tra la Cecenia degli anni 90 e l’Ucraina di oggi c’è un processo che ha una radice comune. In Cecenia, come oggi in Ucraina, si manifesta la tradizionale violenza inaudita dei militari russi. A Samashki, ad esempio, le truppe speciali ubriache e drogate dopo un bombardamento a tappeto uccisero tra le 150 e le 300 persone. Impiccarono bambini, gettarono bombe a mano nelle cantine dove le famiglie erano rifugiate, violentarono, bruciarono i cadaveri…”. Come spiega un ceceno, “i soldati russi “sparano, ammazzano, o per la paura o perché sono ubriachi, e sono ubriachi perché hanno paura e viceversa”. Sofri incontra due giovani disertori russi: “Ci dicevano che saremmo andati a combattere una causa giusta contro dei banditi venuti dai paesi baltici, che andavamo a difendere la Russia”. Una brutalità che è stata testimoniata da pochi e che l’occidente ha  fatto finta di non vedere per opportunismo e nell’illusione che la Russia si sarebbe acquietata. La Bosnia e la Cecenia sono invece state un’anticipazione, che l’occidente ha ignorato, di quello che sta succedendo in Ucraina. Una cecità che già alla fine degli anni Trenta del Novecento costò all’Europa e all’occidente ancora maggiori tragedie: “Si debbono prendere in parola i dittatori, e anche soltanto gli uomini troppo potenti: alla fine fanno quello che dicono”. Per questo Sofri conclude che l’occidente migliore è fuori dall’occidente, l’Europa migliore è fuori dall’Europa: “Per capire chi siamo, o almeno chi non siamo più, bisogna guardare a chi non è ancora come noi, e immagina che noi siamo come lei ci immagina”.

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