Freud e “la nostra cosiddetta civiltà” (con finale da commedia)

Alfonso Berardinelli

Guerra, morte e violenza, umano e sovrumano. Lezioni da un fosco Natale

Violenza, morte e distruzione. Mai a nostra memoria abbiamo vissuto un Natale così fosco. Certo, noi qui viviamo ancora in pace e protetti. Ma fuori e ai confini nord e est del nostro mondo pacifico c’è l’inferno, che è terreno, non ultraterreno. Il male e il demoniaco (anche se stentiamo a usare questo termine) trionfano ai confini dell’Europa e del Mediterraneo. E la lotta, la guerra inevitabile con cui si è costretti a difendersi dalla violenza subita finisce per far entrare nello stesso inferno. La prima e peggiore cosa che il male e la violenza provocano in chi si trova a esserne vittima è che la difesa comincia a somigliare all’offesa, la riproduce a fin di bene, un bene futuro che si vorrebbe, si crede, si immagina che nasca dal male presente.

L’ideale della non-violenza è sovrumano; per essere praticato richiede una fede religiosa vissuta eroicamente. La reazione violenta alla violenza è non a caso “umanamente” la più naturale. Ma anche a questo ci sono, devono esserci dei limiti. I mezzi usati per raggiungere la pace dovrebbero in qualche modo percepibile somigliare alla pace, cioè allo scopo che si vuole perseguire.

Intanto l’omicidio, la violenza e la distruttività che hanno cominciato a diffondersi nelle nostre società “pacificate”, mostrano il rischio del contagio. Invece che spaventare e ripugnare, sembra che la violenza e l’omicidio stiano superando il confine che li circoscrive e li definisce come un male, per farli entrare in una dimensione di perversa esemplarità. Quanto è avvenuto a Praga, dove un brillante studente universitario ha fatto strage nella sua stessa università, è un episodio non del tutto inedito, che si ispira infatti ad altre precedenti stragi. La pura volontà di strage, di omicidio e di suicidio, ha mostrato di avere una coerenza esplicitamente, consapevolmente perfetta. Il giovane David Kozak ha dichiarato che “voleva i morti” e poi togliersi la vita, proprio nella piazza che porta il nome di Jan Palach, l’altro giovane che invece nel 1969 si diede fuoco (come i monaci buddhisti contro la guerra in Vietnam) per protestare contro l’invasione della allora Cecoslovacchia da parte della Russia sovietica. Al contagio dovuto alle guerre e al terrorismo politico (e politico-religioso!) si aggiunge il contagio individuale, individualistico, isterico e paranoico, senza scopo e puramente autodimostrativo. La coincidenza, l’identità di omicidio e suicidio esibisce l’oscura, o forse lampante, conseguenzialità di distruzione e autodistruzione. Nella vicenda storica, politica e psicopatologica del nazismo, nel suo scenario conclusivo al bunker di Berlino, questo fu assolutamente chiaro. Chi distrugge la vita altrui distrugge o comincia a distruggere la propria: prima riducendola a una sola idea delirante, infine eliminandola fisicamente. E’ il progressivo impoverimento, svuotamento, azzeramento mentale e vitale della personalità ciò che trionfa quando si agisce per la violenza, la distruttività e la morte. La vita è varietà, la morte è l’eliminazione di ogni senso della molteplicità e varietà vitali. Quando la vita emotiva, mentale, culturale si riducono, si impoveriscono, allora la distruttività avanza. Invece che plurale e inesauribile il mondo si contrae come un solo oggetto da odiare e da annullare con un solo atto.

Quando Freud, un secolo fa, si interrogò sulle fonti della sofferenza umana, la sua riflessione mise in rapporto la “costituzione psichica” e “la nostra cosiddetta civiltà”. Dunque proprio la civiltà creata per difendersi dal prepotere della natura è un veicolo di altre minacce, quelle che la civiltà stessa produce ai danni della “natura” umana. Essendo noi un composto ibrido di natura e antinatura, viviamo in regime di equilibrio incerto e precario. Così, a un certo punto della nostra storia, la scoperta di zone del pianeta abitate da “popoli primitivi” ci suggerì un’interpretazione ottimistica della loro vita più semplice, più naturale, più felicemente povera di bisogni. La società dentro il cui involucro protettivo ci sentiamo al sicuro dalle forze della natura, è anche la fonte di frustrazioni e di delusioni, di sofferenze e di nevrosi: “il potere esercitato sulla natura non è la sola condizione della felicità umana” dice Freud. E’ invece molto spesso “il modo con cui sono regolate le relazioni reciproche, le relazioni sociali che riguardano l’essere umano come prossimo che può aiutarci, o come oggetto sessuale, o come membro di una famiglia e di uno Stato”. E ancora dice Freud: “Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare questa affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? (…) questa tendenza all’aggressione, questa ostilità primaria degli uomini fra loro rendono la società incivilita continuamente minacciata di distruzione”. Qui mi arrendo perché vedo che cercare in Freud una conclusione che consoli è vano.

Non mi priverei però di un piccolo finale da commedia, perché non bisogna dimenticare che oggi per fortuna possiamo ricorrere a un discendente di Freud raccomandato con una pubblicità a tutta pagina: il maestro di pensiero Massimo Recalcati. La bella foto dell’autore è incorniciata dalle copertine di una decina di suoi libri, già “diventati dei classici” si dice, e i cui titoli vanno da “Non è più come prima” e “Esiste il rapporto sessuale?” fino a “Le mani della madre” e “A pugni chiusi”. Avremo da leggere per un anno intero. Mettiamoci al lavoro.