Foto LaPresse

L'eleganza di un "vaffa", Arbasino dalla A alla Z

Michele Masneri

Un modo di dire per schermarsi dal mondo degli scocciatori. E poi c’erano le cartoline, la segreteria telefonica e i rap. Un libro ricostruisce il mondo a più voci dello scrittore di “Fratelli d’Italia”

Nel format “enciclopedia” dell’editrice Electa già sperimentato per Italo Calvino, Alberto Savinio, Gianni Rodari, Saul Steinberg, Virginia Woolf, adesso spunta anche Alberto Arbasino. E qui si va dalla A di “America” alla Z di “Zombi”, e sarà un modo anche per  avvicinarsi al Sommo di Voghera mancato tre anni fa senza  il timore di buttarsi sulle mostruose 1.400 pagine dei “Fratelli d’Italia” dell’ultima edizione Adelphi. Anche se il Sommo ha sempre precisato che il suo è un romanzo-conversazione, dove uscire e entrare senza troppe ansie, senza la pretesa di leggerlo dall’inizio alla fine (ma muovendosi invece come a un party, e, in caso di incontri molesti, magari fare come insegnava lui ai pranzi, dire “vado a prendere le posate”, anche avendole già in mano, disorientando l’interlocutore. Altra tecnica che suggeriva, quando siete in trappola, fingere una serie di tic facciali devastanti, per mettere in fuga l’invitato ansioso di conversazione). 

 

A cura di Andrea Cortellessa, l’abbecedario arbasiniano ha contributi di scrittori come Walter Siti e  Gianluigi Ricuperati, poi saggisti come Marco Belpoliti e Luca Scarlini, musicologi come Jacopo Pellegrini e divine arbasiniane  come Anna Ottani Cavina e Clelia Martignoni e poi Raffaele Manica già curatore del doppio Meridiano Arbasino, e ancora giovani italianisti come Pier Giovanni Adamo e Emiliano Ceresi e perfino chi scrive – perdonate l’autorecensione – che si è occupato di tre voci, “Vaffanculo”, “Gotha” e “Petrolio”, per non farsi mancare niente. Dunque nell’ordine partiamo proprio dal vaffa, che era la “safe word” di Arbasino per salvarsi dalle scocciature professionali (non solo teorico ma anche pratico, lo si ripete ancora una volta: a Fabriano, a un festival letterario, a un fotografo di scrittori che lo tormentava  - “le dispiace alzare il mento?”; “le dispiace mettersi accanto alla porta?”-  al terzo “le dispiace” il Sommo rispose: le dispiace andare un po’ affanculo?). Il vaffa, parola amuleto che ricorre 21 volte nel suo Fratelli, era uno dei modi che aveva di sfuggire; un altro era chiudersi  nell’attico di via Gianturco 4, dietro piazza del Popolo, alla sua Olivetti elettrica, schermato dalla leggendaria segreteria telefonica che recitava messaggi sempre nuovi. E alla voce “Lettere”, ecco un “gobbo” per gli audio contro gli scocciatori: “Gentili e Pregiati Utenti e Corrispondenti, a causa dell’eccessivo traffico urbano di richieste e domande nelle abitazioni private, in mancanza di enti o uffici per smistarle si prega di rivolgere ogni questione unicamente attraverso il fax dell’Agenzia A.L.I. Grazie, con vivi apprezzamenti”; o ancora: “Gentili Amici, Amiche, Istituzioni, Associazioni, Fondazioni, Iniziative, Enti ed Eventi, ecc. a causa dell’accresciuto flusso quotidiano di innumerevoli richieste di varie incombenze e prestazioni per chicchessia, ciascuna con incessanti seguiti di corrispondenze loquaci, si fa ben educatamente presente che non è umanamente possibile dar corso o via libera a ulteriori verbosi scambi di cortesi telefonate e lettere. Naturalmente, nothing personal, e tutto garbatamente ‘erga omnes’, con Mille + Mille Auguri a Tutti!”. In altre istruzioni, a causa dell’eccessivo traffico nei messaggi vocali, si pregano le Amiche e gli Amici, “per poter tirare avanti”, di “aver la compiacenza di sintetizzarli in brevi fax e flash”. 

 

Al Gabinetto Vieusseux (vedi voce) di Firenze, peculiare museo che ricostruisce le stanze di illustri personaggi delle Lettere, troneggia sopra la scrivania e accanto alla Lounge Chair di Charles e Ray Eames (con cuscino) su cui lavorava, questo leggendario fax-segreteria con cui Arbasino parlava  al mondo. Al Vieusseux Arbasino lasciò in eredità i suoi arredi e le sue carte e quando si andò all’inaugurazione si temeva l’effetto madame Tussauds, invece tutto filava, e commuoveva pure il pensare che sopra di lui ci fossero due vecchi amici come Pasolini e Gadda in una specie di collegio di vecchi ragazzi (e di notte, magari, saltassero fuori dalle rispettive stanze per delle gran chiacchiere in pigiama). 

 

Sono andati perduti i vocali con cui intimidiva i chiamanti (anche: “Il dottore è in riunione. Tutto l’ufficio è in agitazione. Per proposte economiche mandate cifre in dollari e ecu” -  non esisteva ancora l’euro). Bisognerebbe ricrearli oggi forse con le intelligenze artificiali come nei diari di Andy Warhol (e al Vieusseux, ecco una foto sua con Warhol e Marta Marzotto). Gli amici sapevano che bisognava aspettare la fine del nastro registrato e poi lui avrebbe finalmente tirato su. Intanto, scriveva; è stato uno dei più grandi lavoratori mai visti, ovviamente senza darlo a intendere, perché era ancora la generazione che aborriva il lamento (ma già aveva visto arrivare invece le successive coi mali di vivere e le infanzie problematiche tematizzate).

 

Poco tempo, anche, per partecipare a scalatine e gruppetti di potere, e per fare “l’attivista”. Oggi ti chiedono di schierarti geopoliticamente su Instagram e TikTok ma già allora si volevano  soprattutto “firme. Due, tre, dieci al giorno, su tutti gli argomenti e tutti i paesi: Grecia, Bolivia, Malesia, Messico, Cecoslovacchia, Costarica, India, Persia, Brasile, Filippine, Guatemala, Nicaragua, Cuba, Haiti, Libia, Paraguay, i due Vietnam, le due Irlande, le due Germanie, le due Coree, venti o trenta nuovi Stati africani oppressi o iniqui, la crisi del cinema, le nuove tendenze del teatro, le nuove forme del romanzo, gli spazi verdi, i movimenti dell’avanguardia, gli aiuti per le rivoluzioni, i sussidi per le ribellioni, le sovvenzioni per le insurrezioni, i versamenti anticipati per le rivolte, le biennali, triennali, e quadriennali, i festival, i convegni, le iniziative, le manifestazioni, le partecipazioni, i coinvolgimenti, i dibattiti, e tutti i problemi dei giovani. Moravia ha sempre già firmato”.

 

Invece lui se poteva fuggiva  (A di America), altrimenti stava a via Gianturco a leggere e scrivere senza rotture, e poi ne nascevano i romanzi e i saggi, e gli articoli che consegnava a Repubblica e Corriere e prima al Giorno e prima ancora al Mondo. Con una tecnica di economia circolare imparata da Edmund Wilson: visto che si deve studiare, per fare un pezzo, farlo in modo che poi possa finire in  un saggio, e poi ancora in un romanzo (ad esempio, i reportage dall’Inghilterra poi finiti in “Lettere da Londra” e in parte in “Fratelli d’Italia”). Per fare questo serviva, oggi come allora, difendersi dalle perdite di tempo, dalle scocciature, e uno dei lasciti più attuali del metodo Arbasino è proprio la difesa del tuo lavoro di intellettuale dalle mille richieste che ti vengono da fuori. A leggere oggi quello che scriveva negli anni Sessanta si capisce che non è cambiato niente. Richieste di articoli e introduzioni e presentazioni, cotte e mangiate, pagate pochissimo (altro che salario minimo). Solo i supporti son cambiati: allora ti chiedevano il pezzo scritto a macchina,  oggi lo vogliono “per il web”, dunque pagandolo meno del già proletarizzato articolo normale, e dandoti meno tempo, come se un pezzo online che non debba essere stampato richieda meno fatica, oltre a rimanere per sempre in Rete a bella mostra di quanto sei stato minchione ad accettare.

 

Ma vuoi mettere  “a visibbilità”. Ecco come andava: “In fine di mattinata incominciano le richieste guitte e si riconoscono perché dopo una risatina meccanica di complimenti e ‘bellissimo!’ per qualche cosa attaccano con un ‘se la diverte’ che suscita gelo e sospetto immediato, e provoca la replica automatica ‘se sapesse cosa mi divertirebbe fare in questo momento!’... Infatti, quel ‘se la diverte’  è un segnale preciso di richiesta d’una cosettina già svalorizzata con l’aggiunta d’altre formulette tipo ‘non ci vuol niente!’, e con caratteristiche fisse: la cosettina è una stronzata; non riguarda mai la capacità professionale e le competenze specifiche; deve impegnare l’attenzione e il giudizio su temi balordi per destinatari mortificanti; non viene compensata per nessuna ragione; c’è sempre una grandissima fretta: ‘per stasera, allora, grazie’".
 

“Servirebbe subito, stiamo andando in stampa”, intimano anche oggi quelli che  ti scrivono (su Instagram alle otto di sera) chiedendoti una bella introduzione gratis al loro volume sul brutalismo brianzolo (ma invece che in stampa, andatevene a... Però noi oggi non si ha il coraggio del vaffa, son cambiati i tempi). Una volta che il prodotto è pubblicato, poi, l’utenza lo pretende  gratis. On e off line. In questo c’è stato un piccolo cambiamento (in peggio). All’epoca, col quotidiano non si scampava all’edicola. Oggi, chissà cosa avrebbe detto lui di fronte alla festiva richiesta del “pidieffino”. Che ti arriva puntuale, motivata col “sai, non ho trovato un’edicola” (grazie tante,  non esistono più, al limite vendono magliette e limoncelli, lo sanno tutti, tutti noi spendiamo centinaia di euro negli abbonamenti online, ma loro no, non c’è niente da fare, “non riesco”, digitano, dal loro iPhone158 e dalla loro Audi ultimo modello tecnologicissima di cui hanno impiegato mesi a studiare le  funzioni).  

 

Consola insomma che non è cambiato nulla. In uno spettacolino che si è fatto a Capri qualche mese fa, per celebrare i 60 anni di “Fratelli d’Italia”, e tratto da un mio librino, Iaia Forte recitava un altro pezzo dell’autodifesa intellettuale di Arbasino. Le interviste cretine, da subire. “Sono Bambolina Marabù del settimanale Allora!!! Nel quadro di una serie di iniziative per la mega-decade manzoniana del costume stiamo preparando una maxi-inchiesta circa l’impatto della Prima Comunione sulla cultura italiana da Agnelli e Amendola a Zavattini e Zolla... Cuccù!...”. Mentre Tommaso Ragno  scandiva uno dei “rap”  civili del Sommo (anche lì, non cambia nulla, la proliferazione di eventi a cui sei invitato, sempre fondamentali, esperienziali, micidiali, “con preghiera”, scrivono così, “di diffusione” dei contenuti, tipo candela profumata per ambiente). Due o tre per sera, tutti i giorni, in tutte le città, ci vogliono anche stomaci forti per i prosecchi scadenti e le tartine rancide, sempre nella  “splendida cornice”). Ma lui rispondeva così: “Grazie per il cortese invito\al Vs programma, “Roba di pochi minuti“\ per il servizio “Non remunerati”. Rispondendo solo a una impegnativa\ di una V/s amministrazione competente\ o controllata\ anch’io Vi invito a un Evento\ ancora più esclusivo e intrigante\ nel mio appartamento. L’allestimento\consiste nel pulire il pavimento\ lavare le tende degli anni Trenta\ rivisitare le molle dei letti\ degli anni Quaranta\e riparare tutti i rubinetti \degli anni Cinquanta. Al Vs. intervento\ ci tiene specialmente\la Sora Cecia, vecchia lavorante come quella serva\  della Vs. mamma”.

 

Dal laborioso fortino di via Gianturco il Sommo mandava missive, piccoli fax ai giornali di commento alla quotidiana  bêtise (vedi voce) e soprattutto cartoline ad amici e conoscenti per ringraziamenti, commenti, messaggi vari, possibilmente nonsense (“schiocca la frusta”, per una da Cortina d’Ampezzo con slitta, e Duomo di Milano, in quella a me indirizzata, per un romanzo che gli si mandò, “Auguri! Auguri!”). “Io sono un po’ cartolinaro”, dice qui alla voce “Lettere”. “Nello spazio di una cartolina si possono dire diverse cose, e nello stesso tempo la riproduzione di un quadro o di un paesaggio mi sembra molto più interessante”. Lo spazio della cartolina era il suo, perché sdrammatizzava qualsiasi missiva; ma per le comunicazioni più serie, passava ai biglietti bianchi, intestati. Se ne trovò uno, a Testori (“io vorrei vederti, e tu?”), che per i suoi standard molto stiff era quasi a rischio “invadenza”, parola che manca nell’enciclopedia ma che per lui costituiva il punto di non ritorno della mala educazione. Poi ci sono le lettere e i biglietti  di Kissinger ma anche  di Gadda, Muriel Spark, Ivy Compton-Burnett, Angus Wilson, Gianni Agnelli.  E chi volesse davvero la “Arbasino full experience” potrebbe affittarsi un AirBnb a Firenze e mettersi lì a studiare tutte le carte (non male come idea per scamparsi il Natale e i parenti). Del resto  epistolare è “L’anonimo lombardo”, il suo romanzo del 1959, un tête à tête tra due giovani ragazzi fuorisede inurbati a  Milano tra amiche che potrebbero essere contemporanee (“la Poppy”) e una delle prime comparse sulle patrie lettere di un amore gay non problematico, cioè problematico come ogni altra storia d’amore ma senza accettazioni, vessazioni, malattie veneree che invece tutti vogliono ancora molto quando scrivi un romanzo con due “lui” anche oggi.  Sullo sfondo, la Milano anni Cinquanta e la Scala. E lei, la Callas (vedi alla voce): folgorazione con la Medea del ‘53, diretta da un giovane Leonard Bernstein (dunque siamo in pieno biopic e revival). Poi ci sarà la leggendaria  Norma del ’60 (vista in Grecia, mentre tutti saranno a Roma per le Olimpiadi). Ma già Alvar González-Palacios mi diceva: “Qualunque opera che tu nominavi lui l’aveva già vista, mettiamo, a New York nel ‘63, a Milano nel’71, a Parigi nell’82. Lo chiamavamo Sisal”. Invece a Roma, alcune delle pagine più divertenti in assoluto dei “Fratelli d’Italia”, sul teatro dell’Opera molto vicino alla stazione, con gli spettatori coatti che paiono viaggiatori (“Die Hauptbanhof Oper”), e signore in pellicce finte e gioielli finti, e migliaia di caramelle mangiate e scartate facendo rumore. 

 

Al Vieusseux tra le cartoline anche gli inviti ai “piccoli pranzi”, queste invece distrazioni gradite, dunque giù contesse e principesse, da Marella Agnelli a Marilù Gaetani. E naturalmente la sua aristo-musa, Domietta del Drago, quella famosa che “signora sarà lei”. Qui si sconfina  nella voce “Gotha”, come senso delle genealogie che lo appassionavano, con le frequentazioni di marchesi e duchi ma anche col tic italiano della parola straniera molto usata  (e scritta sempre sbagliata) nel paese che non ha mai imparato la grafia di sauté di cozze; dunque  magari  “gohta” e quindi  il “gohta” dei parrucchieri, degli influencer,  dei podcast… 

 

E poi “Petrolio”, col rapporto intenso e complicato con Pasolini, che prima lo fa esordire in versi sulla rivista Officina, però cazziandolo e dandogli del provinciale, poi condividono la Roma anni Cinquanta e Sessanta, Hollywood sul Tevere ma anche capitale gay con tutto un mondo indoor e outdoor oggi scomparso, tra club ipogei come l’Easy Going e il Monte Caprino e la Villa Borghese. Era una Roma in cui, raccontava Arbasino, le signore dicevano “stasera ceniamo presto che Pier Paolo deve andare dai suoi ragazzini”, cosa che oggi produrrebbe giustamente rivolte. Arbasino e Pasolini condividevano anche l’amore per le belle macchine, l’Alfa fatale per PPP e la Porsche quasi fatale per AA (con cui fece un brutto incidente). Però, refrattario alle etichette, sosteneva che “se proprio devo definirmi, voglio essere ‘porschista’, perché tengo molto più spesso in mano il cambio della mia 911 che un attrezzo maschile”.  Quando Pasolini fu ucciso, Arbasino ebbe un brutto esaurimento, se ne andava l’amico, il rivale, ma ci fu poi anche l’ansia per un romanzo che stava scrivendo e che non si è mai più trovato, a tema anche lui Eni e idrocarburi. Al Vieusseux, sempre, ecco il ritratto che gli fece Pasolini, con le loro due facce sovrapposte. 

 

Bonus track tre interviste ad Antonio Gnoli su Repubblica di  anni diversi, che raccontano  di uno scrittore amato ma anche detestato da tanti colleghi (fuori dalle cricche, e senza risparmiarsi nulla sui “mostri sacri” del momento, cosa oggi forse impensabile).  A caso: Fellini e Visconti? “Con i collaboratori si comportavano come dei padroni. Amavano circondarsi di una piccola corte della quale assorbire spunti, idee, senza riconoscere i meriti o il talento di nessuno. Fellini era una piovra. Mentre Visconti faceva il signorotto con la sua corte di nani, buffoni e sarte. Testori è stato sfruttato tantissimo da Visconti per ‘Rocco e i suoi fratelli’ senza che gli fosse riconosciuto niente del lavoro svolto”. Arbasino non fa molto per farsi amare. Su Visconti scrive un pezzo che si intitola: “Da Marx alle opaline”, “credo non me lo abbia mai perdonato”. Su Strehler: “da Galilei a Giovannini”. Sul ‘68 e la partecipazione degli intellettuali ai “moti”: “quelle cose le avevo già viste a San Francisco qualche anno prima. Avevo quasi quarant’anni, mica facevo come Pasolini e Moravia che andavano a manifestare all’università per dire ‘anche noi siamo giovani!’”. Di Pasolini apprezza “i suoi primi film”. Salò? “Un almanacco della disperazione. Ma di cattivo gusto. Poteva dare anche una certa angoscia  pensando allo stato mentale di chi lo aveva concepito”. La cacciata di Pasolini dal Pci? “Fu un fatto di puritanesimo piccolo borghese. Neppure nella Dc sarebbe potuto accadere”. Nella Dc c’era “una tolleranza da parrocchia veneta, che accettava i gusti del campanaro o del sagrestano”. La poesia friulana di Pasolini? “Tanto vale parlare dei poeti di Voghera”. Come si dice: nel libro c’è anche tanto altro.  

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).