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Il libro

La coscienza del poeta si mette in scena e svela l'indomabilità del suo pensiero

Alfonso Berardinelli

Oltre i versi. La “conversazione” di Paolo Febbraro: un genere letterario che rende onore all'intelligenza intuitiva, visionaria e raziocinante dell'autore romano

Volete sentire la voce di un poeta capace di pensare, come sempre è accaduto, del resto, a ogni vero poeta? Un poeta al quale sia capitata la sorte di nascere nel 1965 e di aver cominciato a pubblicare tre decenni dopo? Quel poeta è Paolo Febbraro e gli è successo di sentire subito alle proprie spalle autori come Vittorio Sereni, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini: “Maestri che hanno consegnato a me una poesia erede delle grandi tradizioni liriche precedenti, ma già impregnata di sconfitta storica ed esistenziale (…). Non potevo caricarmi sulle spalle tutti gli scacchi vissuti dagli intellettuali del Novecento. Non ne sarei uscito vivo”. Che cosa significa questo? Mi pare proprio che significhi coscienza storica, senza la quale nessun artista e nessun intellettuale (o artista che sia anche un intellettuale) può cominciare a percepire quasi fisicamente le misure dello spazio culturale in cui può e deve esprimersi, e che sono la sua realtà. Il poeta e intellettuale Febbraro, intervistato da un più giovane autore, Stefano Modeo, nel libro Conversazione (edizioni Industria e Letteratura, pp. 146, euro 15), appartiene alla tradizione della poesia moderna (e anche postmoderna, se consapevole di venire dopo la modernità). Quella tradizione, che sembra essersi esaurita o interrotta a fine Novecento, ogni tanto riemerge in singoli e sempre più singolari autori. Al di là o al di qua di questa, c’è l’immane massa di autori che sono solo un fenomeno per sociologi della cultura. La loro cosiddetta poesia è extraculturale, manca proprio di autocoscienza storica: decine o centinaia di scriventi che (come dice Febbraro) scrivono ma non sanno rileggersi: un’insipienza, questa, che per un poeta è mortale.

 

Nel caso di Conversazione l’intervista diventa un genere letterario che permette all’intervistato di entrare in scena interamente. Merito dell’intervistatore Modeo, ma anche qualità che caratterizza Febbraro, la cui intelligenza intuitiva, a volte visionaria, sempre raziocinante, è di per sé poetica. La poesia è infatti una forma (o più forme insieme) di intelligenza. Può certo succedere che dei poeti siano, appaiano piuttosto stupidi: ma immancabilmente la loro poesia ne risentirà e i lettori se ne accorgeranno, o giudicando male l’autore, o sentendosi rassicurati perché possono credere di essere poeti anche loro senza molta fatica. Quella di Febbraro poeta e prosatore è da trent’anni fra le voci più indomabili e libere della nostra letteratura. L’aver teorizzato sull’idiota (L’idiota. Una storia letteraria, 2011) segnala in che misura Febbraro sa che per vedere le cose come sono c’è bisogno spesso di avvertire la contiguità, tanto pericolosa quanto necessaria, di intelletto e follia, cioè non appartenenza ai correnti codici sociali.

 

La passione per le verità taciute che ha Febbraro è drammaticamente ludica e ha spesso un carattere teatrale: per questo la sua suona sempre come una “unconstraining voice”, che secondo Auden è la voce della poesia. Cito: “La speranza è un sentimento ambivalente. Peraltro è una delle virtù cardinali del Cristianesimo. Sperare significa desiderare che le cose cambino in meglio; significa disprezzare, o non amare, il proprio tempo, è voler recuperare quello antico o prefigurare quello futuro in termini palingenetici, rivoluzionari, radicali. Sperano i religiosi, i reazionari e i rivoluzionari: ovvero le tre specie umane più pericolose e pluriomicide”. Considerazione da cui nasce uno degli “a fondo” più paradossali, lucidi e iconoclasti del libro: “La classe operaia – qualunque cosa essa possa essere – è stata alienata dal pensiero di Marx ancor più che dal sistema capitalistico di produzione. Averne fatto la ‘classe rivoluzionaria’, la ‘motrice della società avvenire’, ‘l’erede della filosofia classica tedesca’ ha espulso le singole persone impiegate nelle industrie come operai dalla loro individualità concreta, dai loro bisogni e dalle loro fantasie, per esiliarle in un futuro pensato per loro da una filosofia improntata allo Stato Etico e alla Fine della Storia”. Potrei citare pagine e pagine, perché l’intera intervista fa parte a pieno diritto e titolo dell’opera letteraria di Febbraro. Direi che come indomabilità di pensiero, non c’è male.

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