Luca De Fusco

Facce dispari

Il regista teatrale De Fusco: “Le logiche tribali sono l'antico male della cultura italiana”

Francesco Palmieri

"La prima repubblica aveva più rispetto, perché non era affatto scontato che a ogni cambio di giunta o di ministro corrispondesse quello di un direttore di né la riconsiderazione dei fondi". Guiderà il Teatro di Roma? "Parlarne adesso è prematuro". Intervista al direttore del teatro Stabile di Catania

Scelse il teatro perché il cinema richiede troppo tempo e non c’è di peggio, per un “flemmatico ansioso”, della realizzazione lenta di un progetto. Né si è pentito Luca De Fusco, classe ’57, napoletano di Posillipo trapiantato a Roma con tre passioni: la lettura, la psicoanalisi e la danza contemporanea.

Direttore per dieci anni del Teatro Stabile del Veneto, lo è stato per quasi altrettanti del Teatro Stabile di Napoli e dal 2022 guida quello di Catania, dove l’ultima regia è l’adattamento di "Anna Karenina" con Galatea Ranzi, che ha inaugurato la stagione il 3 novembre scorso. La sfida con i capolavori letterari appassiona De Fusco e la rinnova spesso, ma si avvicina all’opera che mette in scena con la regola che s’imponeva Arturo Toscanini: un regista teatrale è un regista come il direttore d’orchestra è un direttore, non l’autore aggiunto di quel che dirige.

 

È un limite ostativo o un precetto necessario?
La figura del regista teatrale fu concepita ai primi del Novecento per ridare centralità al testo, non per stravolgerlo. Il regista è come chi esegue una partitura: può e deve interpretarla, ma mantenendo la consapevolezza di non esserne l’autore. Se vuol reinventare, meglio che si dedichi al cinema.

Però ci sono regie, un caso recentissimo è il "Maometto secondo" di Rossini al San Carlo, che condizionano anche le altre parti dell’opera. Promossa, in questo caso, per orchestra e recitazione ma bocciata per la messinscena.

Non l’ho vista e non giudico il collega. In generale però, soprattutto nella lirica, è come se il dissenso venga quasi cercato perché fa più notizia una provocazione, o una prima contestata, di un buon allestimento. In più, negli ultimi anni l’ossessione del politically correct ha portato a ridicole derive: che senso ha stravolgere i personaggi di "Otello" o del "Mercante di Venezia"? Sono frutto di un periodo storico, ci piaccia o meno, ma se un testo non ci piace basta non metterlo in scena. Al massimo si può reinterpretare come faceva Luca Ronconi perché va da sé che ogni regia è un tradimento, ma una regia contro l’opera mi pare una insensatezza.

Come si traspone a teatro un opus magnum come "Anna Karenina"?
È complicato ma ho cercato di non nascondere l’origine letteraria dello spettacolo, affidando le annotazioni e le descrizioni di Tolstoj agli "a parte" dei personaggi o al coro. Lo scopo era mettere in scena il romanzo. Non un testo tratto dal romanzo, perché non avrebbe più senso provarci dopo la stagione dei magistrali adattamenti degli anni Sessanta e Settanta. Il pubblico che ha visto "Anna Karenina" a Catania era composto in larga parte da lettori del libro, contenti di ritrovarne sulla scena certi passi, anche se la durata sfida i tempi di attenzione cui specie dopo il lockdown del Covid ci si è abituati con le serie tv. Due ore e venti più l’intervallo.

È anche un tributo alla cultura russa.
Il cuore batte per Kyiv, ma ho frequentato i teatri russi portando spettacoli a Mosca e a San Pietroburgo e sono consapevole, come diceva Cechov, che la cultura russa si è sempre ritenuta in gran parte europea. Sarebbe un grave errore dimenticarsene o cancellarla dai cartelloni come qualcuno fece all’inizio di questa guerra.
 

Il teatro italiano gode di buona salute?
Molto più del cinema, perché non c’è schermo gigante che possa surrogarlo a casa e perché è un’arte spuria per definizione, che ha sempre assorbito altri linguaggi. C’è spazio persino per la serialità: l’ho fatto una volta con la "Orestea" e non escludo di ripetere l’esperimento.
 

Però anche Eduardo o Strehler possiamo rivederli in televisione.
Neppure con le migliori riprese si riprova l’emozione della visione dal vivo. Questa è la peculiarità del teatro ma anche l’angoscia di chi lo fa: noi lavoriamo sulla sabbia e non possiamo essere rivalutati post mortem. Lei può rivedere "La dolce vita" sempre con la stessa emozione. Tutt’al più ci sono pellicole che col tempo hanno bisogno di restauro, però non cambia nulla. Vale anche in letteratura: Tomasi di Lampedusa morì impubblicato, ma il tempo ha reso giustizia al Gattopardo. Per le persone di teatro, invece, se manca il riconoscimento nel presente restano cancellate per sempre.

Tomasi e Fellini: due figure controcorrente.
Ho letto "La bella confusione" di Francesco Piccolo e penso a quanto fosse inquietante giudicare Fellini un reazionario. L’altro malanno italiano, che precede il fenomeno del politically correct, è ragionare per categorie predefinite, per tribù. Sarebbe bello superare queste logiche, che non trovano uguale riscontro all’estero.
 

Sono logiche reciproche. Adesso che è al governo, ne viene accusata la destra.
È ovvio che ora la destra eserciti una facoltà di designazione più ampia né si può pensare che abdichi al ruolo di scelta tipico della politica, purché la
logica del tribalismo non sovrasti il criterio della qualità. Devo ammettere che la prima repubblica aveva più rispetto, perché non era affatto scontato che a
ogni cambio di giunta o di ministro corrispondesse quello di un direttore di teatro né la riconsiderazione dei fondi. Purtroppo, il teatro ha i soldi tra i suoi strumenti espressivi, con cui si dà lavoro e non soltanto agli attori.

È vero che lei andrà a dirigere il Teatro di Roma?
Chiunque si occupi della materia sa che certe decisioni si prendono nelle ultime quarantott’ore. Parlarne adesso è prematuro, sarebbe come discettare sul sesso degli angeli.
 

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