Odio le mostre - 6

Una mostra grande e grossa che è meglio studiarsela sul catalogo

Camillo Langone

Alla Triennale di Milano c'è "Pittura italiana oggi": 120 quadri di altrettanti pittori nati fra 1960 e 2000. Cosa diranno gli storici del 2123 dell'Italia del 2023?

Odio le mostre e odio entrare nelle grandi città per cui odio due volte “Pittura italiana oggi”, alla Triennale di Milano fino all’11 febbraio. Per non dovermi preoccupare di parcheggiare o, nel caso di viaggio in treno, per non dovermi preoccupare di sopravvivere a Piazza Duca d’Aosta, luogo di agguati alloctoni, questa mostra grande e grossa (120 quadri di altrettanti pittori nati fra 1960 e 2000) me la studio sul catalogo Electa. Che offre un altro vantaggio notevole: evita la distrazione dell’allestimento. Qualcuno ne ha parlato bene, qualcuno ne ha parlato male, dell’allestimento di Italo Rota, ma a me degli allestimenti non me ne frega niente. Anzi, mi interessa che non si notino, che non si citino, che quasi non ci siano. Come ricorda l’eccellente pittore Daniele Galliano “quello che rimane nei secoli dei secoli sono le opere”. Il 12 febbraio prossimo l’allestimento di Rota verrà portato in discarica mentre i più ispirati dei 120 quadri prenderanno la via dell’eternità. O perlomeno della lunga durata. Provo a immaginare quali, sulla scorta del pensiero di Andrea Emo: “La radice dell’arte è l’eternità dell’effimero”. Cercando pertanto di identificare i quadri che meglio rispecchiano l’epoca (è solo un criterio fra i vari possibili, chiaro).

Nel 2123 gli storici noteranno che nel 2023 la donna era nell’arte onnipresente e non come oggetto (i disponibili, tattili nudi del secondo millennio…) ma come soggetto, come protagonista, come partigiana della “ideologia chiamata Donna” (Richard Millet). Le tre opere più lampanti di questo filone sono “La noia” di Silvia Argiolas (Cagliari 1977), una serata di sorellanza, allusioni e sostanze, “Green Enchantment” di Beatrice Alici (San Donà di Piave 1992), due sacerdotesse cosmiche, “Il tappeto dei respiri” di Maddalena Tesser (Vittorio Veneto 1992), ragazze molto introverse, coi volti coperti dai capelli e il bisogno, ovviamente non espresso, che arrivi qualcuno a scostarli e ad accarezzare. Questo qualcuno, se dell’altro sesso, non arriverà mai se è vero “L’uomo che piange” di Marco Bongiorni (Garbagnate Milanese 1981), monumentino al maschio sensibile ossia inutile. E magari è meglio così, meglio che non arrivi nessuno se ha ragione Iva Lulashi (Tirana 1988), autrice di “Ma come disarmarti, anima cara”. C’è una ragazza nuda distesa per terra e non è proprio il caso di ingolosirsi, potrebbe essere morta, sembra la scena di un delitto, si intravedono uomini vestiti e tocca sospettare uno stupro, forse di gruppo, con successivo omicidio.

Nel 2023 il maschio si stava spegnendo, penseranno gli storici del 2123, oppure stava arretrando l’intera umanità, la specie nel suo complesso. Quest’ultimo dato emerge dal finissimo lino di Andrea Chiesi (Modena 1966), intitolato “Deus Sive Natura 3”. Il Piranesi dell’archeologia industriale ha dipinto un edificio in rovina, una vecchia officina invasa dalla vegetazione. L’homo faber divorato dai rovi. Se Chiesi raffigura la potenza del vegetale, Roberto Coda Zabetta (Biella 1975) esprime la potenza del minerale. Con “Frana e fango” ci troviamo nella zona del sublime burkianamente inteso: la natura inarginabile e terribile che si fa bellezza. Non così catastrofico ma sempre nel territorio dell’estinzione (e sempre cromaticamente molto piacevole) è “The whispering of hollow” di Alice Faloretti (Brescia 1992). Nazzarena Poli Maramotti (Montecchio Emilia 1987) compie un passo ulteriore: “Le Metamorfosi II” è un De Pisis deflagrato, un vaso di fiori impazzito, la natura che dopo aver distrutto si autodistrugge. Oltre questa grande quadro terroso non si può procedere se non sprofondando, urge tornare indietro, cambiare tavolozza e stile e umore pur restando nell’ambito del contemporaneo, se non dell’attualità. E’ la mania degli italiani per i cani quella su cui ironizza Lorenza Boisi (Milano 1972) in “Divertissement Estival”. Potrei reintitolare il quadro “Susanna e i Cagnoni”, vista la presenza di due barboni grande mole. O Susanno, vista l’androginia della figura distesa. Eccoci dunque al tema fresco di giornata (e al contempo vecchio come gli archetipi e il mondo) dell’indistinzione, della confusione maschile/femminile, umano/animale… Qui il capofila è Luigi Presicce (Porto Cesareo 1976), riconoscibile fra mille. Nel suo scatenato “Giardino di delizie” Eva ha qualcosa del trans e il diavolo tentatore è un uomo-serpente, un uomo-rettile, verde come la palma a cui si avvinghia e quindi un po’ camaleonte e un po’ verdura. In “Scavenger” di Marta Spagnol (Verona 1994) non si capisce l’antropomorfo e la iena dove cominciano e dove finiscono. La civiltà, questo lo si capisce eccome, non si sente per niente bene. Mentre in “NLWG” di Cecilia Granara (Jeddah 1991) si riduce parecchio la differenza uomo/pianta e addirittura vivo/morto (è la stessa direzione di ricerca, perseguita con opposta calligrafia, del bolognese Nunzio Paci).

Gli storici del 2123 diranno che nell’Italia del 2023 convivevano l’abbandono del cattolicesimo e la nostalgia del sacro. Beatrice Meoni (Firenze 1960) con “Francesco”, Chris Roccheggiani (Jesi 1977) con “Deposizione I”, Gianni Politi (Roma 1986) con “Impossibile dare un titolo” (bellissimo titolo), riproducono la forma dell’arte sacra ma, volutamente o inevitabilmente, senza la sostanza dell’arte sacra. Echi colorati di un tempo perduto, provenienti da altari disertati. Francesco De Grandi (Palermo 1968) con “Inizianti” sogna e fa sognare il cristianesimo delle origini, riportandoci a quel battesimo sul Giordano. Nicola Verlato (Verona 1965) con “Hostia” si innesta sulla nostalgia religiosa di Pasolini per prospettare un nuovo tempio, forse un nuovo culto classicista dei poeti e degli eroi.

Orbene, credo che molte persone capitate a vivere in questi anni non ne possano più di allarmi e tragedie. Credo che, come me, anelino al silenzio e alla pace. E allora concludo con “S.T. Serie Switzerland” di Valentina D’Amaro (Massa 1966) e “Focus” di Marta Sforni (Milano 1966): due donne (e meno male che sono misogino, ho citato molte più pittrici di pittori) e soprattutto due quadri di splendore assoluto e riposo assoluto.

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  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).