Unsplash

Cos'è il tempo che passa?

Lo sfigato che ci metterà una vita per tenere a bada il senso di colpa

Marco Archetti

Tutta l'esistenza è lo stesso inganno: un giorno sei un ragazzino al bar mitzvah, il giorno dopo esci con una donna vera in gonna e tacchi. “Cocco di mamma”, l'autobiografia di Howard Jacobson

Cos’è il tempo che passa? E’ Gabriel, è John, è Harry, una manciata di nomi che non rispondono più “presente”. Ma poi tutta la vita è lo stesso inganno: un giorno sei un ragazzino al bar mitzvah, il giorno dopo esci con una donna vera in gonna e tacchi. “Man mano che il numero dei miei amici si riduce, sento di dover portare i loro nomi come un amuleto, quelli dei vivi come quelli dei morti. Siamo rimasti più o meno la metà. Erano tutti al mio matrimonio”.

Sono tantissime le figure del passato evocate in Cocco di mamma (La Nave di Teseo, 339 pp., 20 euro), croccante autobiografia di Howard Jacobson, scrittore britannico che ci aveva sollazzato, nel 2010, con L’Enigma di Finkler, primo romanzo comico a vincere il Man Booker Prize. A segno anche con Prendete mia suocera, titolo fenomenale e romanzo sulla scrittura, anzi, sullo scrivere, roba che fa scodinzolare giusto qualche necrofilo di Facoltà, invece – sorpresa – quel che ci si ritrovò tra le mani fu un romanzo sfacciato sul desiderio. Howard Jacobson torna adesso con la sua fedele traduttrice Milena Ciccimarra e un’autobiografia che non ha il tono di un “Dormono sulla collina” seppure sul racconto si allunghino le penombre, pagina dopo pagina si accorcino le aspettative, i ritratti siano al passato e l’incipit suoni così: “Mia madre è morta oggi. E’ il 3 maggio 2020. Aveva novantasette anni.” 

 

Per chiarezza: in partenza il racconto sembrerebbe per jacobsoniani osservanti, come l’interno familiare (“Essere ebrei? Peccato per chi se lo perde!”). Poi, procedendo nella lettura, le pagine di interesse si moltiplicano, soprattutto quelle in dolorosa combutta con l’attualità. “Mio padre non nutriva speranze riguardo Israele”, scrive Jacobson. “Capiva le ragioni della sua esistenza, capiva che avrebbe dovuto fare cose crudeli per rimanere incolume e diceva che forse sarebbe venuto il giorno in cui saremmo stati grati per questo. Alcuni ebrei ritengono che oggi siamo al sicuro nel mondo, che non avremo mai più bisogno di una scialuppa di salvataggio, e accusano chi la pensa in modo diverso di fomentare il panico per giustificare l’appropriazione della terra altrui. Mio padre avrebbe riso loro in faccia. Non credeva che saremmo mai stati al sicuro nel mondo”.

 

Il padre di Jacobson fu, oltre che profeta a sua insaputa, sarto del reggimento, non certo una figura eroica. Ma anche Howard non sarebbe mai stato un eroe, piuttosto, un vero nebbish – in yddish, sfigato; uno che ci metterà una vita per imparare la vita, e a tenere a bada l’elefante del senso di colpa e il fantasma della tristezza. Il bel romanzo che si nasconde in quest’autobiografia è la storia della sua rivalità con Gabriel Jacobs, che nebbish non lo era, anzi, viveva l’inebriante condizione di chi è baciato dalla grazia e dal possesso di un macchinone. Il poco avvenente Howard, per rimorchiare, era costretto a balbettare: “Il mio amico guida una MG Midget, vuoi venire?”. Ovviamente andavano tutte con l’amico. Ma lui, quell’amico, sapeva farlo ridere come nessun altro, e Jacobson sa raccontarcela con tenerezza, questa devozione molto maschile che da giovani si prova per il compagno scafato. Mentre Gabriel le stendeva tutte, Howard consolidava una carriera nel ping pong. Per la serie, la vita è altrove: “Andavo in trasferta in mense aziendali, centri sociali e oratori parrocchiali, in sale di smistamento degli uffici postali e depositi di autobus. Né Marco Polo né Ulisse videro cose che vidi io”. Soprattutto quando le palline schizzavano via e le si recuperava sotto panche sgangherate o tavoli unti, e per un attimo Jacobson guardava il mondo da laggiù, un punto da cui non lo guardava nessuno, dove ogni partita aveva un’importanza esagerata nella totale indifferenza del mondo. Lo scrittore nacque lì: mentre raccattava palline dietro un termosifone e nella sua testa una folla inesistente lo acclamava e donne immaginarie con le labbra rosse facevano vorticare reggiseni. 

Poi a un certo punto una donna arriva, ed è Ros, moglie leggendaria. Fan di Eschilo e di Wagner, paladina degli ebrei. Una che dopo aver letto il suo primo romanzo di 190 pagine disse: “Per me comincia qui”. Howard si sentì morire: il dito segnava pagina 189.

Di più su questi argomenti: