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Fuori schema. L'enfant terrible della critica nello specchio dei suoi saggi

Paolo D'Angelo

“Antinomie”, il nuovo saggio di Alfonso Berardinelli: finalmente un elogio della parzialità, senza la quale non capiremmo assolutamente nulla

Per capire, diceva Oscar Wilde, bisogna essere parziali. Essere imparziali vuol dire non capire assolutamente nulla. Ecco, Berardinelli è un critico parziale. Cioè, è un vero critico. Perché imparziale può essere uno storico della letteratura, un professore di letteratura, ma non un critico. Berardinelli ha le sue passioni, i suoi autori, le sue predilezioni e le sue antipatie. Ed è una sorpresa vedere come questa raccolta di saggi, Antinomie. Letteratura, intellettuali, idee (editore Inschibboleth, 2023), tutti occasionali come debbono essere i saggi, riesca a darci un ritratto completo dell’autore, e a guidarci, appunto, tra le sue passioni e i suoi aborrimenti. Ci riesce, perché i saggi sono stati scelti da Berardinelli stesso, attingendoli da un lasso di tempo molto esteso (il più antico risale agli anni Ottanta, il più recente è di pochissimi anni fa) e nella loro varietà vengono a comporre un autoritratto. Come ogni critico pur sang, infatti, Berardinelli parla d’altro per parlare di sé stesso. Certo, qualcosa di simile si potrebbe dire anche dell’antologia di suoi scritti apparsa appena l’anno passato dal Saggiatore, Un secolo dentro l’altro. Ma in quella corposissima raccolta (più di mille pagine) il percorso per così dire il lettore se lo deve fare da solo, mentre qui può affidarsi a una guida più sicura di tutte, quella di chi i saggi li ha scritti. 

 

Sensibile, curioso, eslege, Berardinelli è cresciuto in un clima culturale che è un miracolo se non è riuscito a guastarlo e a fargli cambiare strada. Si è formato negli anni Sessanta e Settanta, quelli in cui gli studi letterari erano dominati dallo strutturalismo e dalla semiologia: orientamenti diversi ma concordi nel ritenere che la teoria letteraria venisse prima e fosse più importante della letteratura, che i sistemi critici facessero aggio sulle opere, che i metodi servissero a sostituire il rapporto diretto con le poesie e i romanzi. La teoria della letteratura, insomma, finiva per ingoiare la letteratura, e le diversità tra le varie tradizioni letterarie sparivano a favore di strumenti critici buoni per tutti gli usi. Per Berardinelli, invece, la critica letteraria non può mai ridursi ad applicazione di metodologie, per quanto sofisticate. In un certo senso, anzi, per lui la scelta critica è nata in alternativa ai metodi e alle teorie. 

 

La buona critica  non può nascere che dalla trascrizione di un’esperienza di lettura, non può limitarsi a essere analisi asettica di un testo. Per questo essa rimane un’impresa personale, “sempre sospettabile di parzialità e soggettivismo”. Il metodo, alla fine, non è altro che la personalità del critico, e per questo la buona critica ha sempre uno sfondo autobiografico, come si può verificare negli scritti di Giacomo Debenedetti, forse il solo critico italiano dal quale Berardinelli senta di avere imparato, e al quale dedica in questa raccolta due ritratti riconoscenti e acuti. Il critico dunque è uno scrittore, ma è scrittore di un genere a parte, un genere interpretativo e valutativo, che ha la sua misura propria nel saggio. La forma-saggio è da sempre al centro dell’interesse di Berardinelli, che le aveva dedicato, già negli anni Novanta, un ampio capitolo di un Manuale di Letteratura italiana curato dai due soli studiosi di letteratura che ha avuto alleati nella sua lotta contro l’imperialismo struttural-semiotico, Franco Brioschi e Costanzo di Girolamo.

 

Ma il saggio è fatto di idee, e nulla sarebbe più lontano dalla verità del pensare a Berardinelli come a un critico impressionistico, delibatore di sensazioni di lettura e cacciatore di bellurie stilistiche. Al contrario la critica di Berardinelli è intessuta di argomentazioni e di convinzioni teoriche. Lo si vede, anche a un primo sguardo, dalla inclinazione che molti suoi saggi dimostrano verso le schematizzazioni e le semplificazioni tipologiche. Se ancora ricordiamo una sua gustosa classificazione dei tipi intellettuali (Intellettuali-ruspa, tritacarne, apriscatole e frullatore), in Antinomie possiamo rileggere le Teorie letterarie italiane aggregate attorno a coppie antagoniste: Dante/Petrarca, Manzoni/Leopardi, Croce/Pirandello, Debenedetti/Contini. Per carità, però, non si pensi a Berardinelli come a un intellettuale impegnato, secondo un cliché che lo legherebbe a un tempo che non può essere il suo. L’intellettuale impegnato è anzi per Berardinelli la perfetta antitesi rispetto a quello che vuole essere, un critico solitario della cultura, un chierico senza chiesa.

 

Senza chiesa ma non senza fede. Sopravvissuto alla stagione della teoria e dei metodi, e della fiducia nella letteratura come un bene indiscutibile, automaticamente garantito, Berardinelli si è trovato a vivere, nella seconda parte della sua vita, l’esperienza della perdita di peso della letteratura e, ancor più, della critica letteraria. Il critico ha ormai l’impressione di essere un intruso. La recensione, lo strumento principe della critica militante, evapora a favore dell’intervista autopromozionale all’autore, della mera segnalazione pubblicitaria, del gossip in rete. Ma soprattutto la produzione letteraria stessa sembra farsi più esile, sembra sempre più valicare il confine con l’intrattenimento. Si è acuito, così, il solco tra la critica militante e lo studio accademico della letteratura, che sopravvive e in un certo senso si rafforza, trincerandosi non più nella roccaforte della teoria ma nei recessi della letteratura comparata. Il critico e lo studioso di letteratura si incontrano sempre meno nella stessa persona. Se questo processo non ha travolto Berardinelli, è perché in lui è rimasta salda almeno la fiducia nel potenziale conoscitivo e critico della scrittura. 

 

La poesia resta un campo non addomesticabile. Per questo nei saggi di Antinomie non fatichiamo a vedere ancora il giovane studioso che sognava di mettere la letteratura contro lo studio universitario della letteratura, o addirittura il ragazzo descritto quarant’anni fa in Lode degli scomparsi. In quella sorta di elegia autobiografica Berardinelli raccontava come, adolescente, dall’incontro con i grandi scrittori del passato traesse la forza “se non per opporsi, almeno per sfuggire”. Allora il tono era l’elegia, oggi forse il disincanto. Ma, oggi come allora, non la rinuncia. Raggiunti gli ottant’anni, Berardinelli resta l’enfant terrible della nostra critica.

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