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La "felice eccezione" di Israele contro il determinismo, secondo Isaiah Berlin

Giulio Silvano

L'autore nel suo saggio "Le origini di Israele" esplora le difficoltà del far nascere una democrazia in medio oriente nel Ventesimo secolo

"Marxisti tedeschi e bundisti russi”, ministri e uomini di stato delle grandi potenze europee, storici e scienziati politici, quando il sionismo era ancora un’idea, in pochi hanno pensato che fosse davvero possibile creare uno stato dove gli ebrei non fossero più la minoranza. Pochissimi “hanno creduto che avrebbe mai avuto la forza combattiva e l’unità spirituale necessarie per trionfare su un così grande numero di ostacoli”. Lo stato esiste da cinque anni quando Isaiah Berlin scrive queste parole nel saggio "Le origini di Israele" (si trova nella raccolta Il potere delle idee, Adelphi). Passeranno anni e molti eventi, guerre, governi di destra e di sinistra, assassinii di primi ministri, terribili attacchi terroristici, ma la natura di questo testo non invecchia. Il motivo è che i ragionamenti di Berlin mostrano quali fossero, dal punto di vista intellettuale, le eccezionalità di creare un paese, di costruire un nuovo stato, di far nascere una democrazia nel medio oriente nel Ventesimo secolo dopo due conflitti mondiali che avevano ridisegnato i confini dell’area. Un “paese che nasce dai sogni e dalla speranza”, diceva Amos Oz.

Questo spirito, anomalo nella storia, continua a esistere oggi di fronte a chi chiede la distruzione dello stato di Israele, a chi non conosce la strada che ha portato al ’48, a chi parla di illegittimità. Negare Israele è negare non solo la storia, ma la storia delle idee liberali europee. Berlin, che studiò e poi insegnò a Oxford per tutta la vita, fuggito dalla Russia dopo aver visto la Rivoluzione d’ottobre dalla finestra di casa sua a Pietrogrado, osserva, e non solo in quanto ebreo, come le diverse anime che costruiscono Israele, ebrei della diaspora di paesi con storie diverse, educati in modi diversi, creino non solo una nazione, ma quasi un nuovo tipo di uomo. “Un essere umano egualitario, politicamente liberale, con un mentalità non dissimile da quella del Risorgimento italiano”, cioè “una specie giustamente ammirata dai liberali e radicali inglesi dell’Ottocento”. “Per un sociologo serio, oggi il posto dove andare è sicuramente Israele”, perché si può vedere in opera, come in un laboratorio, uno stato nuovo dove i primi pionieri hanno fatto convivere “l’entusiasmo liberale” a una “fede semisocialista”, modificata “da dosi di scetticismo, individualismo ed empirismo”. Come diceva Theodor Herzl la questione sociale e quella religiosa centrano ben poco. “E’ una questione nazionale”. Israele è dunque un’idea che prende forma, figlio di molte idee europee e dell’est, ma soprattutto nella sua struttura politica di quell’illuminismo liberale russo nato in chiave antizarista. 

Già Berlin vede nel ’53 la fragilità dello stato, sottolinea come “la lotta ideologica tra le potenze dominanti diventa scontro violento sul suolo di Israele, un punto più sensibile di ogni altro luogo sulla superficie del mondo”. Perché l’esistenza di Israele, costantemente minacciata, confuta diverse teorie deterministiche del comportamento umano, teorie materialistiche e antimaterialistiche. Israele è una “felice eccezione”, non una forzatura della storia, ma “un anacronismo preziosissimo, interessante e pieno di forza ispiratrice e, tuttavia, un fenomeno strano e unico”. Questo stato che “occupa una porzione minuscola della superficie terrestre”, mostra soprattutto “il potere delle idee, e non già soltanto delle pressioni economiche e sociali”. Conclude Berlin: “Israele rimane una testimonianza vivente del trionfo dell’idealismo e della forza di volontà degli uomini sulle leggi presunte inesorabili dell’evoluzione storica. E mi sembra che questo vada a eterno onore di tutta la razza umana”.

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