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Retorica monumentale

Cari fan della cancel culture, limitatevi a leggere Omero senza processarlo

Edoardo Rialti

Ottusità contemporanee sugli antichi. "Chi ha paura dei Greci e dei Romani?", un libro di Maurizio Bettini, direttore del centro Antropologia e Mondo antico di Siena

"Chi mi libererà dai Greci e dai Romani?” La domanda non è così recente. A chiederselo fu Joseph Berchoux alla fine del Settecento, terrorizzato dalla Rivoluzione: “Ci han sgozzato i Moderni a suon di frasi antiche”. Democrazia, repubblica, tirannia erano parole e categorie che avevano fornito le coordinate fondamentali per l’attacco all’Ancien Régime. Bruto ha tenuto a battesimo il Settecento, così come Antigone il Romanticismo e Edipo la contemporaneità. Nei rovesci del dharma, oggi le fazioni che brandiscono difesa o critica dei classici nel dibattito pubblico e le sue traduzioni social paiono spesso ribaltate. Le accuse di Omero sessista, Platone schiavista, contro cui si levano i video motivazionali che contrappongono agli effeminati ragazzi gender fluid spezzoni di film su palestrati spartani con cimieri e scudo. Il pastore democratico Cleaver ha concluso la preghiera al Congresso con un “Amen and Awoman” e un senatore repubblicano l’ha attaccato dandogli del cialtrone in latino (ignorando a sua volta che Amen è ebraico). Siparietto comico quanto si vuole, ma che addita una miopia bifronte, che idolatra una tradizione che parrebbe difendere vecchie supremazie o per le medesime ragioni la condanna senza appello.

E’ il cancro della retorica monumentale, vecchio vizio portato avanti con esiti più o meno ridicoli – dai risorgimentali che si entusiasmavano per il medievale Arduino re d’Italia al ministro dell’Istruzione che addita Dante come padre della destra – avversato da chi rivendica di sottoporre il canone culturale dell’occidente e il suo insegnamento alla critica radicale di nuove sensibilità ed esigenze di rappresentatività e inclusività. Un balletto dove le due posizioni spesso si tengono per mano, e il fronte dell’accusa sottende o ripropone vecchi stereotipi della difesa, come se donne, persone di colore o omosessuali fossero categorie deboli da proteggere a suon di trigger warning etc. La tanto evocata cancel culture è a sua volta un concetto la cui radice semantica deriva proprio dal latino “grata”, che è quanto sia tradizionalismo sia contestazione e tentano di esercitare sullo studio e la comunicazione di tanta tradizione occidentale, soprattutto greco-romana: “Se a prevalere è una fede cieca nell’identità, nel restare se stessi a tutti i costi, dialogo, traduzione, comprensione, accoglienza e convivenza divengono ardue, talora impossibili”. A scriverlo è Maurizio Bettini, direttore del centro Antropologia e Mondo antico di Siena, in Chi ha paura dei Greci e dei Romani? (Einaudi). La risposta è entrambe le fazioni, che in modi diversi eppure convergenti, aggirano l’unica dinamica conoscitiva autentica, esporsi a una vastità e un’alterità dalla quale deriviamo in modi più ambigui, complessi e spiazzanti di quanto vorremmo ammettere. Il modello della classicità come civiltà superiore faceva stampare ai fascisti francobolli con le res gestae di Augusto – ma quello stesso mondo antico conosceva una libertà nel tradurre come proprie le esperienze religiose altrui e persino un umorismo verso i propri dèi che oggi metterebbe in seria difficoltà un neocon che sforni su Twitter citazioni di Cicerone “Tienimi in braccio, mi son cagato addosso”, dice Dioniso saltando addosso al sacerdote in prima fila ne “Le Rane”.

Difficile immaginarci un vescovo compiaciuto in una sacra rappresentazione. Gli entusiasti del machismo antico farebbero bene a ricordare pure Achille che piange come una vedova indiana su Patroclo. In un mondo che – come il nostro – conosceva colonialismo, mire imperialistiche, violenze e stereotipi, si sono diffusi concetti a cui non bisogna guardare, ma “con cui” sarebbe meglio guardare, perché il loro peso non sta meramente nel loro valore documentaristico, genealogico, ma nella loro energia di lievito o enzima. Parole come persona (dalla sua antica accezione di maschera alla sfida assolutamente contemporanea del concetto di ruolo), umanità così come dialogo, differenza, critica, il sopracitato cancellare, la stessa esperienza di leggere questo articolo come esperienza interiore, la scrittura che smorza gli altri sensi, vengono tutti da Saffo, Platone, Seneca, Marco Aurelio. Tentare un elenco è persino ridicolo. Sono loro che ci hanno dato gli strumenti coi quali opporci a essi. Rimuovere questo dalla coscienza collettiva sega il tronco dell’esperienza culturale che fonda tutte le altre, ovverosia la gratitudine, ben diversa dall’accettazione feticistica e idolatrica, eco adolescenziale fin troppo protratto nella società occidentale. Ma è ancor più di questo. Ogni esperienza autentica non è uno specchio o peggio ancora un filtro, ma una finestra dove i tratti stessi della nostra faccia si mescolano a qualcosa di diverso e più grande, che contava ieri e conta e conterà oggi e domani. Come diceva Cate Blanchett allo studente che in “Tar” si rifiutava di suonare il patriarcale Bach “Bisogna sublimare se stessi, il proprio ego e, sì, la propria identità. Devi, infatti, metterti di fronte al pubblico e a Dio e cancellare te stesso”. Chi perde la sua vita, la trova.

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