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Un'inchiesta sulla crisi dei libri

Caro scrittore, il lettore da sedurre è il narcisista

Annamaria Guadagni

Ma anche l’emotivo, l’umbratile, il distratto. Quello colto e pretenzioso appartiene ormai a una piccola nicchia. Così la rete ha cambiato l’editoria e la figura del letterato

Che strana quest’estate dei libri, una specie di turning point intorno a quello che presumevamo ma non era precisamente a fuoco. Un’estate di profezie che si avverano e tendenze di lungo periodo che si mostrano. Lo Strega l’ha vinto un memoir e il Campiello un particolarissimo libro di storia. All’inizio della stagione letteraria un saggio di sociologia della letteratura di Gianluigi Simonetti (“Caccia allo Strega”, nottetempo) aveva anticipato la sintomatologia, avanzando l’idea che la letteratura è andata a perdersi nel mare magnum della narrativizzazione universale. Parola brutta che rende bene. Addio “antichi generi blasonati”, niente più saggi, romanzi, memorie, diari, reportage, ci sono solo storie da raccontare.

Quanto ai premi, selezionano libri non per il canone letterario ma seguendo i gusti del pubblico. Con l’occhio a quello che piace più che a quello che vale, cercando di catturare i desiderata del capriccioso e corteggiatissimo non-lettore, quello che consuma un libro l’anno e lo sceglie in base alla fascetta. Così i titoli prescelti, per farsi leggere, devono saper emozionare, commuovere, intrattenere, giammai impegnare o sfidare “un lettore egocentrico, viscerale”. Un lettore che fatalmente ricorda il sempre evocato elettore, quello che se va alle urne vota di pancia. Ecco allora che l’analisi dei testi e il filtro della critica contano sempre meno e tutto diventa narrativa.

Nel paese – pardon, nella nazione – di Giorgia e del generale Vannacci, la giuria popolare del Campiello ha scelto un ritratto corale di partigiane, costruito tra parole e immagini, “La Resistenza delle donne” di Benedetta Tobagi. Al secondo posto è arrivata la biografia di Joyce Lussu con “La Sibilla” di Silvia Ballestra. E, se guardiamo tutto il bouquet finalista al Campiello, di romanzi ce n’è uno solo: “Centomilioni” di Marta Cai. Il resto è trionfo dell’ibrido: una combinazione di narrativa, saggio, poesia, memoir. Anche il premio per l’opera prima è andato a una raccolta di storie vere sul cinema di Emiliano Morreale e la menzione speciale al memoir di Ada d’Adamo che a luglio ha vinto lo Strega poco dopo la scomparsa dell’autrice, con seguito di polemiche sull’onda emotiva che avrebbe trascinato il premio. Un’onda simile a quella che ha fatto subito salire nelle classifiche “Tre ciotole” di Michela Murgia, libro sostenuto dall’amplificazione enorme data alla malattia e alla morte dell’autrice che ha scelto di viverle in pubblico e quasi in diretta fino alla fine.

Che dire? Quanto agli ibridi, nella modernità in cui tutto – dalle identità collettive a quelle di genere – si sta liquefacendo sarebbe strano che proprio i libri rimanessero quelli di prima, giri l’angolo e torni a incontrare il professor Zygmunt Bauman! Del resto ci sono ibridi e autofiction di grandissima qualità: basta pensare a Carrère, al primo Houellebecq, ad Annie Ernaux o a Svetlana Aleksievic. E in Italia a Helena Janeczek, Emanuele Trevi o Walter Siti con quell’incipit intrigante di “Troppi paradisi”: “Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità. Le mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa”. Quanto al mitologico non-lettore da sedurre, è umorale e guizza come un pesce: l’ha intercettato anche il generale Vannacci con il suo sgrammaticato ruggito per raddrizzare il mondo. Quest’estate il suo libro auto-pubblicato si dice abbia viaggiato sulle diecimila copie alla settimana. E, secondo calcoli del Corriere della Sera smentiti dall’interessato, l’autore avrebbe già incassato più di 800 mila euro lordi, spinto da un battage eccezionale, questo davvero innegabile. Forse un giorno i media smetteranno di stupirsi del successo di quello che gonfiano e che poi si sgonfia quando si abbassano le luci.

Insomma un’estate di colpi di teatro, di effetti speciali, di frutti d’annata pazza e chissà forse anche preziosa per capire tendenze di lungo periodo che deflagrano. A un certo punto sono arrivati i dati sugli indici di lettura e tutto si è raffreddato. Si è visto che gli italiani che, per diletto, aprono almeno un libro all’anno sono di nuovo sotto il 40 per cento. Da anni è festa se salgono a 4 su 10 ma poi tornare giù nello sgomento generale. Nella sostanza però cambia poco e restiamo inchiodati all’immagine del paese immobilizzato nella sua insuperabile ignoranza, che è ormai talmente cristallizzata da risultare inguardabile. E così – tra deprecazioni e sghignazzi – non ci accorgiamo di quel poco che cambia davvero e che si muove perfino più in fretta di quanto crediamo. 

Prendiamo l’ircocervo, il mitologico lettore fragile che tutto trascina con sé. Se lo usiamo per capire i comportamenti di lettura è una lente deformata da correggere subito: definireste ciclista uno che prende la bici per diletto una volta all’anno? No, è solo uno che sa pedalare. Così il lettore: identificarlo con il parametro statistico di quello che sfoglia annualmente un libro a tempo perso restituisce un’immagine improbabile. L’esempio folgorante viene dal blog di uno dei maggiori esperti di problemi dell’editoria e della lettura: il professor Giovanni Solimine, che alla Sapienza ha diretto il dipartimento di Scienze del libro e ora presiede la Fondazione Bellonci e le biblioteche di Roma. 

Nel mondo contemporaneo, sostiene Solimine, lettore è chi fa abitualmente ricorso alla parola scritta per informarsi, apprendere, sapere quello che serve nel quotidiano. Uno che legge, e non solo per diletto, almeno quattro o cinque libri l’anno e i giornali tre o quattro volte alla settimana. Una figura così descritta non è certo un lettore forte (quelli leggono almeno un libro al mese e sono prevalentemente donne), però è uno che pratica la lettura per stare al mondo e non avrebbe alcun senso distinguere se lo fa su carta o in digitale. Gli italiani con queste caratteristiche negli ultimi anni oscillano tra il 36 e il 38 per cento. I numeri sono bassi lo stesso, ma il personaggio descritto – il lettore – non è così grottesco e avido di junk food. 

Il punto vero è che anche questi italiani sono in calo: “Se si guardano i trend di medio e lungo periodo”, mi spiega Giovanni Solimine, “si scopre che negli anni Sessanta e Settanta, grazie alla scolarizzazione di massa e al desiderio di capire il mondo, il numero dei lettori è raddoppiato o addirittura triplicato. A partire dal 2010 – l’anno in cui in Italia si è letto di più – invece siamo in calo costante. Abbiamo perso circa tre milioni di lettori soprattutto tra i giovani”. E non lo dobbiamo alla caduta generale dei consumi come si dice: “Il libro è anticiclico e non segue l’andamento delle crisi. Semmai, lo si deve al fatto che negli ultimi dieci anni la rete mobile ha riempito tutti gli spazi vuoti della giornata. C’è stata una migrazione di massa dalla lettura di libri e giornali ad altre forme di consumo digitali, prevalentemente i social network”. “Vorrei essere chiaro, un ragazzo che, per prepararsi a un compito in classe, guarda un documentario sulla Seconda guerra mondiale su YouTube, anziché leggere un libro, usa uno strumento differente ma altrettanto valido”, prosegue il professor Solimine che su queste questioni ha scritto con Giorgio Zanchini “La cultura orizzontale”, pubblicato da Laterza. “Non sostengo la superiorità del modello di apprendimento precedente, ma certo si legge in modo molto diverso. Informarsi in rete scorrendo i testi con gli occhi come uno scanner è conforme all’attenzione distratta propria del nostro modo di vivere multitasking, ma è sempre meno compatibile con la lettura di un libro, che richiede concentrazione e non consente di fare contemporaneamente più cose”. 

Probabilmente si appoggia qui almeno una delle ragioni dei risultati tremendi dei test Invalsi, secondo i quali alla fine delle medie superiori un ragazzo su due non capisce quello che legge. “La capacità di comprensione non è innata”, chiosa Solimine, “richiede esercizio e, se non la usiamo, la perdiamo”. Riassumendo: non abbiamo mai avuto così tanti alfabetizzati e sul viale del tramonto non c’è la lettura ma un modo di leggere sì: quello verticale, profondo. “Andiamo verso stili di apprendimento più intuitivi, verso una cultura orizzontale fatta di connessioni rapide. Come è sempre successo, perdiamo delle abilità e ne acquisiamo altre. Ma questo mutamento dona al lettore l’illusione dell’autosufficienza, tutti pensiamo di poterci fare un’opinione da soli cercando in rete, senza più mediazioni e controllo delle fonti. Declinano competenza e autorevolezza, perdiamo la pazienza cognitiva necessaria a sapere da dove vengono le cose. Un effetto reso molto bene da Checco Zalone nella famosa gag sui ragazzi che non guardano più le partite di calcio perché tanto basta la moviola per vedere i goal”.

In un suo libro in uscita a fine mese da Aras, “Cervelli anfibi, orecchie e digitale”, il professor Solimine propone esercizi di lettura futura e prevede il successo di audiolibri e podcast alla luce di queste e altre considerazioni sull’attenzione distratta. Ma certo corre un piccolo brivido perché il modo di leggere diventa modo di pensare. Negli anni Ottanta Gilles Deleuze aveva previsto che la diffusione della rete avrebbe modificato il pensiero: non più verticale ma orizzontale appunto, fatto di associazioni e connessioni veloci. Eccolo, ci siamo dentro. L’utopia della rete prefigurava un mondo più democratico, non si erano ancora materializzati gli effetti collaterali. Tra i quali il lettore impaziente, onnipotente e troppo pieno di sé che evoca un’altra profezia avverata, quella sulla cultura del narcisismo, affidata da Christopher Lasch al suo famoso saggio degli anni Novanta. 

Da allora c’è stata una espansione dell’Io così diffusa che negli Stati Uniti si è addirittura discusso se eliminare il disturbo narcisistico di personalità dalle diagnosi psichiatriche. L’American psychiatric association voleva toglierlo dal famoso Dsm (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) perché non si può considerare malattia un comportamento sociale. “Per il Dsm il disturbo narcisistico di personalità è caratterizzato da grandiosità, bisogno di ammirazione e mancanza di empatia. Ma c’è un lato spesso trascurato del narcisismo: quello fragile e vulnerabile dell’inferiorità”, precisa lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi, professore di psicologia dinamica alla Sapienza. E’ l’autore di un piccolo fascinoso saggio: “Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo”, pubblicato da Einaudi. “Alla fine, e io dico per fortuna”, continua Lingiardi, “i maggiori clinici internazionali intervennero per confermare la necessità della diagnosi, che continua a vivere, negli studi di psicoterapia come nelle aule dei tribunali, avvolta nelle sue luci e nelle sue ombre. E’ importante però distinguere tra una personalità con tratti, anche forti, di tipo narcisistico – chi non li ha? – e un vero e proprio disturbo clinico”.
Dunque distinguiamo e mettiamo da parte la diagnosi clinica. Ma certo è difficile pensare che il narcisismo diffuso non abbia modificato il rapporto con la lettura: anche leggendo andiamo in cerca di specchi per rimirarci e rincuorarci, di identificazione e di gratificazione e magari l’autore con la sua storia personale ci riflette molto meglio del testo, e per questo diventa più interessante. Le sembra plausibile, chiedo a Vittorio Lingiardi? “A me sembra”, risponde, “che l’aumento della sensibilità narcisistica, abbia modificato anche il modo di scrivere, e non solo quello di leggere. Una maggior attenzione alle proprie storie, al mondo dell’interiorità e del piccolo cerchio delle relazioni strette, e una riduzione della produzione di letteratura di respiro storico ed epico. Ovviamente questo ha cambiato anche i lettori, e il loro bisogno di identificarsi in storie più intime e meno corali. C’è stato uno spostamento di orizzonti, un cambiamento del senso del vicino-lontano, ma mi sembra sbagliato dire che in questo la letteratura è peggiore. Ci sono capolavori che hanno come protagonista il proprio sé, la ‘La coscienza di Zeno’ di Svevo per esempio. Semmai è cambiato, questo sì in modo un po’ narcisistico, e molto grazie ai social, il rapporto tra lettore e scrittore. E’ subentrata una quotidianità, uno scambio continuo, sappiamo sempre tutto, troppo, degli scrittori. Il poeta René Char dice che ‘sopprimere la lontananza uccide. Non di altro gli dèi muoiono che dello stare in mezzo a noi’. Ma anche qui starei attento a giudicare e generalizzare”.

Chissà, forse gli dèi erano già in declino prima che li frequentassimo troppo. E, prima ancora della contiguità dei social, c’è stata quella dei festival, la socializzazione-spettacolo della lettura. All’inizio degli anni Duemila è arrivata anche in Italia la febbre dell’incontro con l’autore. Io stessa ho lavorato con convinzione a progetti con l’obiettivo di familiarizzare gli italiani alla lettura di tradizione anglosassone, fatta dall’autore ad alta voce. Si è poi trovata una misura diversa, tutta italiana e consolidata in appuntamenti fissi e città del libro. Anche i nostri festival sono frequentati da grandi nomi della cultura internazionale, trovo bello che un ragazzo oggi possa andare in una piazza a sentire un premio Nobel. Intorno si è poi diffuso un pulviscolo imitativo: la presentazione ovunque, status symbol della Pro Loco. Una nebulosa di eventi di cui è difficile misurare l’impatto commerciale e tantomeno i risultati di promozione della lettura. Si sa ma non si dice che il rapporto medio tra partecipanti a una presentazione e copie vendute sta intorno al dieci per cento, sale al trenta quando l’autore è un bravo performer, vola quando il libro è l’oggetto su cui una star dello spettacolo, della letteratura, dei media o dei fornelli mette l’autografo ora inevitabilmente accompagnato dal selfie. Ma il vero ritorno è un altro: i festival e le fiere importanti servono a lanciare libri che altrimenti non godrebbero di tanta esposizione, sono macchine di comunicazione intorno a una dimensione della lettura che un tempo non esisteva: l’evento.

Elisabetta Sgarbi odia la parola evento, ma è stata tra i primi a capire che nella modernità la lettura sarebbe diventata spettacolo. Più di vent’anni fa si è inventata la Milanesiana che col tempo è diventata parte di un modello di editoria che non fa solo libri, ma ne integra la produzione con musica, mostre d’arte, cinema e attività culturali varie. Quando ha cominciato, le chiedo, era consapevole di proporre un altro modo di leggere? “No, l’inizio è stato casuale. E non posso dire ci fosse un progetto così definito. Il progetto era – come sempre – di fare qualcosa in cui mi riconoscessi. Mi interessava mettere in scena le mie passioni, farle incontrare e trasformarle in qualcosa di condivisibile con gli altri. La Letteratura la Musica il Cinema e soprattutto la Poesia. E di invitare quegli artisti che amavo, farli incontrare. Se guardo ai primi anni, vedo autori che ho seguito per una vita: Enrico Ghezzi, Umberto Eco, Houellebecq, Kureishi, Ioseliani, Malick, Carmelo Bene, Maalouf, Mehldau…”.

Dopo quasi un quarto di secolo (la Milanesiana fa 25 anni l’anno prossimo) si può fare un bilancio: i festival hanno fatto crescere il numero dei lettori o sono diventati una specie di surrogato della lettura? Insomma basta andare ad ascoltare l’autore e non occorre leggerlo. “Il primo bilancio per me”, prosegue Sgarbi, “è il fatto che la Milanesiana esiste, cresce e ogni anno rilancia. Si è estesa nello spazio e nel tempo, diffondendosi in oltre venticinque città italiane, con la durata di oltre due mesi. Ora si è aggiunta la diramazione di Linus con il Festival del Fumetto. La durata, nelle cose della cultura, ha un peso importante, essenziale”. Il mantra sembra intrattenere il lettore per non perderlo. E’ una tendenza passeggera o vede qualcosa di strutturale? “Intrattenere non è poco”, risponde Sgarbi, che dirige anche la Nave di Teseo. “A me però piace più la parola trattenere. Trattenere il lettore sulla pagina di un romanzo. E anche l’auspicio che il lettore trattenga qualcosa di ciò che legge. Il romanzo nasce per ‘trattenere’, in fondo lo stesso vale anche per la poesia e la musica. Il come poi questo avvenga è la cosa essenziale, e credo risponda ai diversi contesti culturali, alla capacità e alla profondità degli artisti. Ma emozionare fa parte del Dna dell’espressione artistica. Quel piacere, quel sentimento popolare – direbbe Battiato – ‘nasce da meccaniche divine’ e arriva molto lontano”. Quindi, cari tutti, non sputate sull’intrattenimento. Il problema non sono le tendenze, dettate dai tempi e da comportamenti collettivi che chi fa libri inevitabilmente segue, talvolta anticipa, ma non può governare. Il problema è riconoscere la qualità che può rivelarsi non solo nelle opere con requisiti letterari ma anche nella narrativa popolare e nell’intrattenimento colto. La critica di solito snobba il pop, getta giusto un occhio al midcult e si interessa quasi esclusivamente di libri con pretese letterarie. “Eppure in ciascuno di questi domìni”, mi dice Giulio Mozzi, “nascono aquiloni, opere significative. Dumas aveva una factory alla Ken Follett dove sono nati non solo ‘I tre moschettieri’ e ‘Il conte di Montecristo’ ma anche ‘Robin Hood’, che ha consolidato un mito: eppure non l’ha neanche scritto lui, l’aveva affidato a un ‘negro’ come si diceva allora. ‘La donna della domenica’ di Fruttero e Lucentini invece viene dall’intrattenimento colto ma si è rivelato molto di più. ‘Il nome della rosa’ di Eco, al contrario, è diventato un’opera popolarissima pur essendo stata partorita in ambito letterario, sperimentale, dottissimo. Quando ho letto per la prima volta ‘Ferrovie del Messico’ di Gian Marco Griffi ho pensato: ecco, questo è un libro da ventimila copie (sbagliavo per difetto) con un piede in ognuna di queste pieghe del mercato”. 

“Ferrovie del Messico” è un romanzo d’avventura, epico e picaresco, che va in controtendenza; sembra avere il magico equilibrio tra ciò che piace – Griffi sa essere avvincente, divertente, toccante – e ciò che vale: una voce autentica, una lingua, uno stile. Dietro il successo di “Ferrovie del Messico”, il caso letterario che quest’anno ha suscitato molta ammirazione e prodotto buoni risultati di vendita (anche se non ha ricevuto grandi premi) c’è Giulio Mozzi.
Scrittore, finalista allo Strega con “La felicità terrena” nel 1996, editor e consulente editoriale, Mozzi dirige con Giorgia Tribuiani una Bottega di Narrazione, è un valoroso scout. Attività che da più di vent’anni – e non solo in Italia – è affidata alle scuole di scrittura, agli agenti, a istituzioni come il premio Calvino che selezionano inediti: gli editori poi se li contendono. Oggi i vivai sono lì e alle premiazioni o ai saggi di fine anno si va in cerca di nuove promesse. “Ferrovie del Messico” è stato pubblicato da un editore piccolissimo, Laurana, che è riuscito a portarlo e tenerlo in classifica anche se al nastro di partenza, lo scorso anno, aveva appena 168 copie prenotate dai librai. Come hanno fatto a tirarlo su e a farne un successo? Naturalmente si sono giocati tutta l’autorevolezza possibile per farlo leggere e recensire e, sui social, ne hanno fatto un oggetto raro, prezioso: “Ci siamo inventati una caccia al tesoro e abbiamo chiesto ai lettori di cercarlo e fotografare le librerie dove riuscivano a trovarlo e di segnalarci quelle dove mancava. Così abbiamo innescato un passaparola da quaranta copie alla settimana che, nel giro di un anno, è diventato di mille e più”. Un piccolo miracolo. 

Mozzi conosce Gian Marco Griffi da più di dieci anni, sa bene che il metabolismo della scrittura ha tempi di maturazione lunghi e non si dà uno scrittore senza un lettore vero. La qualità di ciò che si scrive dipende da come è stata alimentata. Si sa che un’alta percentuale di aspiranti scrittori non ha letto abbastanza; in un manuale di Vanni Santoni – “La scrittura non si insegna” pubblicato da minimum fax – ho trovato la prescrizione di una dieta: chi mangia/legge male, scriverà male. Per chiudere il cerchio sulla lettura, a Mozzi ho chiesto se anche ai suoi corsisti mancano i fondamentali. “Hanno dietro tante letture ma anche vuoti paurosi”, risponde. “Spesso hanno letto in traduzione molta letteratura americana e non conoscono la tradizione italiana, non possiedono l’italiano letterario che è una lingua speciale, quasi sintetica, che si apprende solo leggendo. Io vengo da una famiglia colta, ma sono veneto e non ho la bella lingua che a Sandro Veronesi, toscano, viene naturale”. Per questo ai suoi allievi Giulio Mozzi consiglia una pagina di Manzoni al giorno. Basta una.

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