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1950-2023

Addio ad Alexandre Adler, politologo, saggista, curioso

Marina Valensise

Muore uno dei più brillanti “italianisants” francesi, commentatore per il Monde, il Figaro, Libération, e altre riviste. Non ebbe mai bisogno di rinnegare il passato, o di farsi passare per un kennedyano come il coevo Walter Veltroni

E adesso che anche Alexandre Adler se n’è andato, Parigi si allontana ancora un po’ di più da Roma. Scompare con lui uno dei più brillanti fra gli “italianisants” francesi. Politologo, saggista, commentatore per il Monde, il Figaro, Libération, e altre riviste, Adler, verbo fluviale e sguardo di falco, era un uomo vasto, rotondo, animato da un inscalfibile ottimismo; un intellettuale cosmopolita nato nel 1950 da una famiglia di ebrei boemi, di origine russo-tedesca e vissuta in Turchia, dove il padre, sopravvissuto alla deportazione, aveva lavorato come ingegnere nelle ferrovie, prima di approdare in Franca negli anni Trenta. Poliglotta, parlava l’italiano correntemente, pur senza averlo mai studiato. Era stato comunista, ma essendo uno spirito libero e libertario, sposato con la storica Blandine Barret Kriegel, figlia dell’eroe della resistenza e dirigente del Pcf Maurice Kriegel, non ebbe mai bisogno di rinnegare il passato, o di farsi passare per un kennedyano come il coevo Walter Veltroni. “Ma che razza di storia è ? – si domandava – Poteva dire che da comunista ha capito che sbagliava. Ma dire che non è mai stato ideologicamente comunista vuol dire aver un rapporto sbagliato con la realtà e con se stessi”. Provocatorio e irriverente come chi per tradizione ha un contenzioso aperto con l’Onnipotente, oltre a tenere moltissimo alla parentela col suo sosia Gregor Gysi, leader della  Sed, e poi del Partito del socialismo democratico, non temeva la verità. “Io sono stato comunista con grande slancio. Ho cercato in buona fede di organizzare cose buone. Ho imparato la lezione. Sui dettagli non abbiamo sbagliato, anzi, i dettagli non erano poi così male. Ma il contesto generale, il marxismo, il sospetto verso il mercato, l’apprezzamento delle dittature dell’est Europa, insomma era il cuore stesso del comunismo che non teneva”.

Per questo, seguiva la politica internazionale, trovandosi a suo agio su una scacchiera senza frontiere, dove il medio oriente l’appassionava tanto quanto gli  Stati Uniti, e l’Italia, la Germania e il Regno Unito si contendevano la sua attenzione. Tanta versatile curiosità, poteva anche indurlo a disdicevoli abbagli, come quando nel 2001 bollò il successo elettorale di Silvio Berlusconi come “una catastrofe morale” pur riconoscendone la vittoria democratica che liquidava la Lega. Nel 2002, J’ai vu finir le monde ancien, il saggio di Grasset sulle conseguenze degli attacchi terroristici dell’11 settembre,  gli valse il Prix du livre politique e lo portò alla ribalta dei commentatori internazionali. Bulimico, famelico, appassionato di idee, teorie congetture, provvisto di illimitata facondia e  di una rete  di  informatori, che per i suoi  detrattori erano frutto della sua fantasia, era il politologo più intervistato di Parigi. Poteva intrattenerti per ore sulla crisi della civiltà e il deficit morale delle società liberali, sulle correnti  del Partito repubblicano americano, e sulle dismissioni dell’universalismo democratico, sulla liberazione del gollista Sarkozy che usava da destra una strategia alla Tony Blair, o sugli errori da apprendista del tecnocrate Macron. Pensava alla grande, anche cimentandosi in analisi avvincenti, ma  azzardate. Il direttore del Nouvel Observateur, Jean Daniel, che ne pativa il successo, diceva di lui, come già Raymond Aron diceva di Malraux: “Era per un terzo geniale, per un terzo immaginario, per un terzo incomprensibile”. Eppure Adler continuava a tenere banco, ammaliando, persuadendo, soggiogando anche quando sapeva di giocare sporco, o cambiava le carte in tavola. Per questo era difficile non prestargli ascolto. Persino quando con perfetta sicumera annunciò: “Il putinismo si sta sciogliendo, pensiamo a una Sant’Elena per Putin”. Era passato un mese dall’invasione russa dell’Ucraina, ma Adler era convinto che “a fine giugno, massimo ai primi di luglio del 2022, tutto sarebbe  finito”. Glielo aveva assicurato il russo Alexander Avdeev che, in stretto contatto col Vaticano, manteneva i rapporti di Mosca con Siria e Israele. Informatissimo e sempre attento alle voci nascoste, Adler non recitava. Nel suo attico fiorito del Marais, anticipava al Foglio lo scenario che oggi abbiamo sotto gli occhi, prodigando consigli per rafforzare i poteri regionali della Federazione russa. Il suo parlare in fondo non era teatro, ma verità. Per questo ci mancherà.

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