Una scena di "Il seme della violenza" (Blackboard Jungle), film del 1955 diretto da Richard Brooks 

Tra parole dimenticate e vocaboli sbagliati. Non conosciamo più l'italiano

Stefano Picciano

Il termine giusto esiste, ma non è sempre a portata di mano. In tre libri un invito a comprendere il valore di ogni vocabolo, insostituibile. Perché contrastare la scomparsa del lessico vuol dire offrire, soprattutto ai giovani, l’opportunità di spalancare il pensiero

In un tempo nel quale il linguaggio tende a impoverirsi, procedendo gradualmente ma inesorabilmente verso l’appiattimento, la riduzione della sua densità, per non dire la scomparsa di interi gruppi di vocaboli è confortante, oltre che piacevole, imbattersi in pubblicazioni che nascono con l’obiettivo di custodire le parole. Nella nostra instancabile ricerca su questo tema abbiamo recentemente avuto occasione di sfogliare Il dimenticatoio. Dizionario delle parole perdute (Franco Cesati Editore, 2016), un volume – originale sia nell’idea sia nella struttura – che fissa sulla carta duemila vocaboli di raro utilizzo, o Il libro delle parole altrimenti smarrite (Rizzoli, 2020), in cui Sabrina D’Alessandro salva circa trecento termini tra i più sconosciuti, e il volume di Massimo Arcangeli intitolato Senza parole. Piccolo dizionario per salvare la nostra lingua (Il Saggiatore, 2020). Testi che ci offrono un tesoro sommerso capace di mettere in luce le potenzialità di una lingua, come la nostra, senza eguali quanto a raffinatezza, precisione, capacità di cogliere con accuratezza di dettagli sensazioni, qualità, fenomeni della realtà che ci circonda. Non solo le cose esteriori come oggetti e azioni ma, ben più importante, ciò che è dentro di noi: stati d’animo, sentimenti, emozioni. Perché, come scrive Umberto Galimberti, “possedere poche parole significa avere meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero.  (…) Con l’impoverimento del linguaggio, che crescerà sempre di più, perdiamo anche i pensieri perché nessuno può pensare una cosa a cui non corrisponda una parola. Non dobbiamo pensare che la parola sia un mezzo per esprimere un pensiero: la parola è la condizione del pensiero (…). Quindi ai giovani che si affacciano alla vita direi: non perdete le parole, perché se perdete le parole, perdete i pensieri!”.

 

L’affinamento del linguaggio, di cui la scuola deve occuparsi, non è dunque finalizzato appena a una migliore capacità di comunicare con altri bensì, innanzitutto, alla possibilità di maturare un pensiero che favorisca la coscienza di sé e della propria esperienza. Ben vengano allora queste curiose pagine piene di parole sconosciute ai più – da aedico e allotrio, fino a volagio, vestigio, zana – che meravigliano e divertono a un tempo, ma anche lasciano il lettore spiazzato a pensare a quanto, di solito, siamo approssimativi nel nostro parlare.

 

“Si sa che tra le parole e ciò che si vuol dire c’è sempre un divario enorme, anche quando magari sembri piccolissimo”, scriveva Giuseppe Ungaretti. Quello propostoci in questi libri è un invito a comprendere il valore di ogni vocabolo, che è insostituibile (già, perché se fosse sostituibile non avrebbe motivo di esistere) e ha il compito di descrivere ciò che esso solo può descrivere. Come veri e propri esploratori e a un tempo custodi della lingua, ecco gli autori spiegarci che un sentiero ripido e in salita è acclive, che un campo di grano al sole è flavescente, che il cielo imbrifero di questo pomeriggio prelude a un temporale notturno; non da ultimo, mi offrono la meravigliosa occasione di definire abbacinante la bellezza della alcinesca fanciulla che mi passa di fianco mentre cammino. Non che si intenda favorire un parlare lambiccato o frasastico, ma – questo sì – un invito a rifuggire la genericità, per imparare a essere precisi, puntuali, esatti nei pensieri che esprimiamo o custodiamo dentro di noi. Perché la parola giusta esiste, anche se non sempre è a portata di mano.

    

Torna alla mente, così, la famosa espressione di Martin Heidegger: “Solo là dove per una cosa è stata trovata la parola, la cosa è una cosa. (…) Nessuna cosa è dove la parola, cioè il nome, manca”. Infatti, come scrive il linguista Edward Sapir, “il concetto non giunge ad avere un’esistenza individuale e indipendente fino a che non abbia trovato una ben distinta realizzazione linguistica. (…) Appena abbiamo la parola noi sentiamo istintivamente, con qualcosa di simile al sollievo, che possiamo maneggiare il concetto”. E’ importante, cioè, rendersi conto che, come ha sintetizzato Ludwig Wittgenstein, che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Imparare nuove parole non significa appena poter esprimersi meglio, ma è qualcosa che modifica la capacità stessa di pensare. Per questo contrastare la scomparsa del lessico vuol dire offrire, soprattutto ai giovani, l’opportunità di spalancare il pensiero fino alle meravigliose dimensioni della sua illimitata libertà.