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Autocrazia e sacralità del potere: Putin ci sta tutto nella storia della Russia

Roberto Persico

Dal medioevo ai nostri giorni, il saggio di Orlando Figes ripercorre le vicende del grande paese e mette a fuoco alcune costanti: dalla sacralità del potere alla volontà di espandere le sue frontiere. Spunti e qualche lezione

Uno dei gesti di Vladimir Putin più carichi di significato simbolico è stata l’inaugurazione, nel 2016, della statua dedicata a Vladimir, Gran Principe di Kiev, sovrano alla fine del X secolo della Rus’ di Kiev, che Putin ha definito il “primo stato russo”. Una statua alta un metro in più di quella analoga che gli ucraini avevano dedicato nell’Ottocento a Volodymir (così lo chiamano loro), che considerano invece il fondatore dello stato ucraino. A partire da questo evento, Orlando Figes nalla sua Storia della Russia (Mondadori, 382 pp., 26 euro) ripercorre le vicende del grande paese dalle origini medievali ai giorni nostri, sempre attento a mettere in luce le costanti che hanno accompagnato la storia russa in tutto il suo percorso e ancora oggi ne determinano la mentalità e la politica.

Una prima, fondamentale costante della storia russa è la sacralità del potere, il mito del principe che muore come martire per la “santa terra russa”. Un mito che avrebbe generato l’immagine dello zar-batjuška, lo zar “piccolo padre”, difensore buono del suo popolo contro le minacce dell’Anticristo, volta a volta identificato nel nemico di turno, dai tatari ai polacchi cattolici, e che avrebbe caricato di valenze apocalittiche tutte le lotte intestine per il potere, dalle rivolte del “periodo dei torbidi” alla fine del Cinquecento alla ribellione dei “Vecchi credenti” nel secolo successivo. E si sarebbe prolungato anche nel più ateo dei regimi, il comunismo sovietico, che “santificherà” Lenin con tutti gli attributi della tradizione religiosa.

Una seconda costante, figlia diretta della prima, è l’autocrazia: l’idea che il potere dello zar, che viene direttamente da Dio, sia perciò assoluto, non verrà mai scalfita, e i tentativi dei circoli occidentalizzanti fra Sette e Ottocento di introdurre in Russia elementi della democrazia liberale saranno sempre frustrati. Al contrario, rimarrà salda la dipendenza diretta delle cerchie privilegiate dalla benevolenza del potere. A partire dal governo di Ivan il Terribile a metà del Cinquecento infatti il possesso della terra da parte dei boiardi venne legato all’obbligo militare, e chi rifiutava di combattere agli ordini dello zar poteva essere espropriato; all’epoca del comunismo, la carriera o la disgrazia dei membri della nomenklatura dipendeva direttamente dal favore o meno del segretario del partito di turno; e la dipendenza degli oligarchi di oggi da Putin non è che l’ultima forma di quell’antico principio.

Altrettanto antico è il cardine della politica estera: dato che la Russia è priva di confini naturali, l’unico modo per garantire la sua difesa è allargare sempre più le frontiere, per allontanare il più possibile le minacce, vere o immaginate, dal cuore dell’impero; e naturalmente il conflitto con l’Ucraina affonda le radici in contese secolari. Insomma, è la lezione di Figes, se l’Occidente vuole rapportarsi adeguatamente con la Russia di Putin, non può non fare i conti con tutti i caratteri che nel tempo si sono stratificati e in qualche modo pietrificati nell’“anima russa”.

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