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Novecento

Il Poeta dei sospiri. Diego Valeri e il suo “crepuscolo”

Cettina Caliò

Modesto all’apparenza, ma dotato di sguardo acuto e musicalità. Era un uomo pieno di nostalgie e provava a esorcizzare tutto con l’ironia e il distacco. Un intreccio di versi con Guido Gozzano

C’era… c’erano tante rose / affacciate a una finestra, / che ridevano come spose / preparate per la festa”. Sappiamo da fonte certa che questi versi di Diego Valeri facessero sorridere Leonardo Sciascia. Chissà quanti sorrisi e quante vertigini avrebbe oggi, dinanzi a certe moderne vette poetiche. Cogliamo l’occasione del sorriso di un grande autore per fare due passi nel tempo, nell’oblio della poesia analogica, quella del crepuscolo, definita da Antonio Borgese, su La Stampa, nel 1910: “La torbida e limacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare”. Peschiamo dal mucchio due figure rappresentative di quel tempo che segue il tramonto, che avevano in comune l’attenzione per le “buone cose di pessimo gusto”. Adesso che stiamo nel pieno del giorno, con la vanità allo Zenit, forse certa poesia neomelodica, che narra, con una sorta di composta solennità, delle minute cose poco seducenti, “figure sognanti in perplessità”, ci appare ingenua o sempliciotta, poiché oggi la sappiamo lunga sull’incanto. “Non amo che le rose / che non colsi / Non amo che le rose / che potevano essere e non sono / state”. 

Se indugiamo un poco, però, ci accorgiamo che la questione non sta esattamente in questi termini. “E poi veniva lenta / traverso gli orti d’oro, una campana / color di sera, veniva la sera”. Siamo consapevoli della distanza fra la rosa non colta o affacciata alla finestra e l’incartocciarsi della foglia riarsa. Sappiamo che è un’altra cosa rispetto alla musicalità discorsiva dell’indagine esistenziale di Montale o all’immensa e struggente scrittura di Federico Garcia Lorca. 

“E il sol montava / giallo su per il muro, verso il bianco / vuoto del cielo”. Certamente la poesia crepuscolare è altresì lontana dalla profonda bellezza e perizia di senso e suono di tanti odierni pensierini che vanno a capo di continuo. Tuttavia quel crepuscolo letterario ha prodotto una poesia che soltanto in apparenza può sembrare poesiuccia, perché nella sostanza contiene acutezza di sguardo e possiede musicalità e cromatismo, “appena mosso, il vento è come voce / d’acqua che lenta vada alla perduta / sua foce”. E’ versificazione fatta da gente che conosceva lo strumento linguistico, sapeva usarlo e sceglieva come usarlo. “Quante cose ti leggo dentro gli occhi”. Gente come Diego Valeri (è sua la quasi totalità dei versi citati) che riteneva la poesia il più utile prodotto dello spirito umano, un’utilità tangibile nella misura in cui diventa apertura di pensiero. “La mente faticata dalle pagine, / il cuore devastato dall’indagine / sente la voce delle cose prime”. Gli autori crepuscolari si sono confrontati con le “trite parole”, si sono abilmente misurati con la rima “fiore amore”, la più antica e difficile del mondo (per citare Umberto Saba). Poeti del genere, ormai fuori dai cataloghi e relegati sugli scaffali meno accessibili delle librerie personali, forse potrebbero essere un luminoso e istruttivo esempio per chi oggi si misura con la poesia, con “l’arte di contenere il mondo in un bicchiere”.

Diego Valeri aveva un linguaggio visivo e valutava con cura le “eleganti complicazioni spirituali” da affrontare sulla carta. Perché ci sono cose “talmente semplici e talmente grandi che ci superano, ci travolgono, ci sommergono tutti”, scriveva così a ventotto anni, con la Prima guerra mondiale alle porte. “Un vasto coro, un alto / rammarichio di tortore selvagge”. Ha lo sguardo lungo e attento di chi vede tutte le cose che sopravvivono alla brevità della vita e le considera con malinconia e con una leggerezza d’uccello. “Restano, a traccia del lieve paesaggio, / tante crocette a fior del sabbione”. Una voce calorosa e distante insieme, il modo elegante e aristocratico, diceva di lui chi lo ha conosciuto. E’ un veneto di fine ottocento, morto nel ’76, “un assoluto minore del novecento”, lo definì Sergio Solmi. E’ stato saggista, traduttore, insegnante di latino, italiano e francese, al liceo e all’università. Ai suoi studenti ricordava che la vita è fatta di quella solidarietà che permette di sopportarla meglio. “Scivola via come una spola, vola, / sparisce in cielo. Neppur ci ha guardati”. Lavorò anche alla Sovrintendenza alle Arti di Venezia. “Pure, c’era, in quello squallore, / in quell’uggia greve ed amara, / un profumo di cielo in fiore, / un barlume di gioia chiara”. Racconta la natura come in una sorta di avventura di scoperta. Ha un modo bambino di osservare, bambino perché capace di stupirsi e meravigliarsi davanti al nulla delle piccole cose, “grigiori d’alba. Nella muta via / che sa di pane fresco e di rugiada”, quel nulla che, in fin dei conti, è il nostro tutto. “Avviluppata in un roseo velo / sta tutta sospesa fra due turchini / quello del mare, quello del cielo”. Amava Venezia, che ritorna nei suoi versi sempre piena di vento, “qui c’è sempre un poco di vento / a tutte le ore in ogni stagione”. Diego Valeri si porta dentro i luoghi della memoria e la figura della madre che “dietro alle mie spalle / mi guardava in silenzio”. La sua dimenticata poesia ha una dimensione sensoriale, coinvolge i cinque sensi in una nostalgica armonia di suoni e colori. “La tristezza lunga/ delle vuote domeniche assolate… la lussuria insonne delle verdi / notti primaverili”. E’ un’onesta e limpida sintesi fra il dentro e il fuori, consapevole com’era, lui, di quanto importante sia cogliere l’amabile e accorata fanciullezza del mondo, le “gaie tristezze”, attraverso uno spiraglio, mentre si va di corsa. “Come un cuore / che batta ovunque, che batta forte”.

All’inizio del Novecento, anche le recensioni letterarie avevano un certo impetuoso afflato poetico, “poeta di modesta ala, forse, ma così grazioso, così delicato, così nuovo e affascinante!”, ecco, quelle riservate a Guido Gozzano, per esempio, sono un’affascinante lettura e andrebbero raccolte in antologia. Del suo primo libro fu detto: “macchiato da tali immonde sozzure e turpitudini da doversi ritenere inutile qualsiasi ulteriore giudizio critico”.

Il critico Italo Mario Angeloni, agli albori del secolo scorso, sul quotidiano cattolico Il Momento, gli diede del discepolo della vita moderna; scopriamo quindi che la vita è stata moderna in ogni tempo, e che la modernità pare abbia sempre una faccia nascosta, una faccia subdola, grifagna e minacciosa. “E’ un’anima guasta che merita un impetuoso e schietto rimprovero (…), in fondo questo poeta è un fuorviato, non un cattivo; è un inerte morale (…). Certo però è una personalità che va distinta dai consueti scrittorelli di rime. Condannando come empie alcune sue poesie, non posso negargli la simpatia per altre che fanno credere a un substrato quasi francescano della sua anima”. 

Il fuorviato Guido Gozzano era piemontese, di fine Ottocento anche lui, come Diego Valeri. Nella sua inerte moralità, nel substrato quasi francescano della sua anima, era un uomo pieno di nostalgie e provava a esorcizzare tutto con l’ironia e il distacco. Morì nel 1916, poco più che trentenne, a causa della tubercolosi, il mal sottile si diceva allora. Studente svogliato, frequentò molto i balli studenteschi della facoltà di giurisprudenza, e preferì seguire i corsi letterari del poeta Arturo Graf. “Non agogno / che la virtù del sogno: l’inconsapevolezza”. Una delle empie poesie di Gozzano è stata cantata da Francesco Guccini, lo canta nell’isola non trovata, quella che è la più bella di tutte, “quella che il re di Spagna s’ebbe da suo cugino / il re di Portogallo con firma sugellata / e bulla del Pontefice in gotico latino”. Mentre si trovava in Liguria, il così grazioso e così delicato Gozzano rispose in questo modo all’Angeloni: “Questa spiaggia, è così deliziosamente cristiana con i suoi conventi di Clarisse e di Benedettini (…). I Benedettini mi conoscono, sanno che non credo in Dio, ma mi vogliono bene egualmente e non mi danno del porco: sono persone assai più educate e assai meno ciniche dei Direttori del Momento”. Non mancano, tuttavia, le critiche estatiche, sul Corriere della Sera del 1907 si legge: “Che leggera vaghezza di fantasia, qui entro! Che dolce mistero di suoni!”. Guido Gozzano ha raccontato la provincia piccolo-borghese, e la sua Torino, e lo ha fatto con ironico amore. L’ha raccontata nel quotidiano vivere, nei gesti e negli oggetti. “A quest’ora che fai? Tosti il caffè: / e il buon aroma si diffonde intorno? / O cuci i lini e canti e pensi a me”.

Si teneva lontano da una certa mondanità letteraria, “la Cultura! Quando me ne parli, sento l’odore di certe fogne squartate per i restauri”. Ci si accorge, quindi, che tante cose ritornano, ritornano le vecchie mode, e accade che ritornino perfino certi odori. “Odore d’abbandono desolato! / Fiabe defunte delle sovrapporte!”. Viaggiò per luoghi caldi e marini nella speranza che portassero beneficio alla sua salute. Ebbe una breve e tormentata relazione con la poetessa Amalia Guglielminetti che, in merito al loro primo incontro, disse di averlo visto avanzare deciso verso di lei per poi ritornare sui propri passi e allontanarsi con una smorfia, ma la sera stessa la chiamò. “Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo, / e l’indice al labbro, secondo l’atteggiamento romantico”. 

Nella poesia di Valeri e Gozzano traspare la serietà del gioco, la possibilità di fantasticare considerando l’insensatezza del vivere, “il fruscio della luce a fior d’ombra”. Non è un caso che Valeri abbia pubblicato, nel 1928, una raccolta di poesie per bambini e che Gozzano abbia scritto anche delle fiabe, pubblicate sul Corriere dei Piccoli, “il sogno di tutto un passato nella tua curva s’accampa”. La fiaba è un modo di affrontare la realtà, è una sorta di soluzione liberatoria dai fardelli che appesantiscono il passo. “Ma quanta vivezza d’ingegno nelle poesie in cui l’autore non si sforza, per amore d’eccentricità, di turbare l’armonia de’ suoi sentimenti! Quale intima mistura di melanconia e d’arguzia, di ricordo e di desiderio, d’elegia e di canzonetta popolare in parecchi di questi componimenti!”, così si espresse, in un’altra recensione su Gozzano, lo scrittore italo-svizzero Francesco Chiesa. “Ma laggiù, oltre i colli dilettosi, / c’è il Mondo: quella cosa tutta piena / di lotte e di commerci turbinosi, / la cosa tutta piena di quei cosi / con due gambe che fanno tanta pena”. 

Oggi la poesia di inizio Novecento può risultare una roba polverosa e superata, alla quale forse si deve lo stesso rispetto dovuto agli anziani; “tempo che lontanissimo canta / da un cielo di pietra d’acqua e silenzio”, invece bisognerebbe considerare che la rilettura di certi autori è una lezione di stile e di sensibilità che appare più radicale e provocatoria di tanti presunti e ostentati modernismi. “Il fruscio della luce a fior d’ombra”. Una lezione utile ai tanti poeti che si mettono in posa e fanno della poesia una posa. “Lanciano ogni tanto il loro verso strano / tra l’interminabile gridio dei passeri, / ma subito tacciono, sopraffatti e confusi”.

Valeri e Gozzano sono due borghesi di provincia che si portano dentro una geografia affettiva di luoghi che hanno raccontato in maniera quasi fotografica. Sono figli del loro tempo, due autori che hanno alle spalle Pascoli e D’annunzio, “gl’imparaticci d’annunziani”, scriveva Gozzano alla Guglielminetti – e dopo averli assorbiti, cercano di prenderne le distanze, di trovare il loro dire, e sono loro che per primi ironizzano, che mettono le cose della vita sul piano della leggerezza, e lo fanno con classe e mestiere. “Trenta quaranta / tutto il Mondo canta / canta lo gallo / canta la gallina”. Non sono maledetti e non sono estremi, appaiono quasi dimessi, “avita / semplicità che l’anima consola”, eppure, per certi versi, sono rivoluzionari perché dimostrano che si può fare poesia su tutto, che si può avere uno sguardo poetico su ogni minuta cosa. “All’estremo orizzonte i grandi pini / se n’andavano curvi in lunga traccia, / a uno a uno come pellegrini”. A poeti come loro si deve la riconquista della lingua nella scrittura, che smette di essere confinata su auliche vette e diventa quotidiana, intrisa di nuova luce, senza tuttavia perdere l’eleganza. La campagna, la “nuda umiltà degli aspetti naturali”, e la provincia borghese, gli oggetti della quotidianità, diventano metafora di vita, visione poetica, “i fiori in cornice, …/ il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, … / gli acquerelli un po’ scialbi, …/ il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone… / il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco chermisi...”, sono una lezione semplice e incisiva di umanità e di letteratura. La poesia “onesta”, quella fatta di lampi e crepe, “per un cielo verde di vento”, di immersioni nella parola – “e restavamo lì, come sperduti, / con gli occhi indolenziti, abbarbagliati, / col cuore vuoto, col cervello stanco, / con un chiuso tremore in ogni vena, / con un singhiozzo fermo a mezza gola” – quella che mira a mostrarci la nostra dimenticata faccia, esiste proprio come l’isola non trovata, “l’isola esiste. Appare talora di lontano”.

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