Riccardo Chailly presenta a Milano la nuova stagione del Teatro La Scala (LaPresse) 

bella senz'anima

La nuova stagione della Scala: grandi nomi sul podio e in scena ma una linea poco coraggiosa

Alberto Mattioli

La stagione 23-24 è assai buona e tuttavia sembra messa insieme facendo shopping nel supermercato dei valori riconosciuti, profili sicuri e sempre noti. Cherubini a parte, mancano del tutto, nella scelta dei titoli e soprattutto nel modo di proporli, la sorpresa, la fantasia, il rischio, magari anche la provocazione

La stagione 23-24 della Scala non è soltanto assai migliore della 22-23, e non ci voleva davvero molto, ma in generale anche assai buona. La parata direttoriale è rutilante. Oltre al padrone di casa Riccardo Chailly con il Don Carlo inaugurale e un’inaspettata Rondine per il centenario pucciniano, le grandi bacchette si sprecano, a partire da quella ottima massima, cioè Kirill Petrenko (nel Rosenkavalier, oltretutto), poi Thielemann per il nuovo Ring, Harding per la nuova Turandot, i relativamente giovani Viotti (il Simone, un po’ un azzardo), Mariotti (Tell, di cui è interprete già storico), Guggeis (nella sezione archeolirica con Il ratto dal serraglio di Strehler). Il giovane-giovane Michele Gamba estrae la pagliuzza più corta, cioè Medea di Cherubini, lo spettacolo sulla carta più rischioso perché a) si fa per la prima volta alla Scala la Medée vera, quella in francese e con i parlati (da un teatro che si è appena coperto di ridicolo proponendo I Vespri siciliani in italiano e Les contes d’Hoffmann spuri non era scontato); b) la regia è di Damiano Michieletto; c) sul titolo incombe il fantasma della Maria.

  

Per i concerti arrivano anche Metzmacher, Gatti, Chung, Muti, Salonen, Minkowski e Christie. Amen.  Anche il parco cantanti è notevole, al netto di un Filippo II impossibile a Sant’Ambroeus, dove per il resto la compagnia è quella solita e solida. Ci sono la Netrebko una e trina, Don Carlo, Turandot e un gala pucciniano con Kaufmann, Meli, la Garanca (due volte: Eboli e Santuzza), Salsi (idem: Posa e Simone), la Buratto, Pertusi, la Rebeka, Brownlee, Olivieri, Bernheim, Eyvazov, la d’Oustrac, Vistoli, la Stoyanova (per la Marescialla ancora lei? Basta!), la Devieilhe, Pretti, Volle, la Berzhanskaya e insomma tutti o quasi.

 

Sulle regie va molto peggio, per la solita paura che attanaglia il teatrone terrorizzato da qualsiasi contestazione, comprese quelle arteriosclerotiche. A parte Michieletto, ci sono i consueti revenants, diverse riprese giudiziose, un nuovo Livermore che è poi l’unico regista importante battezzato dalla Scala negli ultimi vent’anni, insomma scelte prudenti e qualcuna francamente imbarazzante. I nuovi talenti italiani sono bellamente ignorati, perché la Scala non fa scouting. E dire che l’attuale contingenza politica potrebbe o forse dovrebbe suggerire l’elaborazione di una via nazionale al teatro musicale contemporaneo che non sia l’attuale museo ma nemmeno il mainstream lirico internazionale. Invece questa stagione sembra messa insieme facendo shopping nel supermercato dei valori riconosciuti, nomi sicuri e sempre noti. Cherubini a parte, mancano del tutto, nella scelta dei titoli e soprattutto nel modo di proporli, la sorpresa, la fantasia, il rischio, magari anche la provocazione. Non c’è una linea culturale e artistica coraggiosa, anzi non c’è nemmeno una linea definita: si pesca qui e là, di solito con giudizio, ma senza guizzi. Il nuovo Ring, quest’anno Rheingold, il prossimo Walküre e Siegfried, nel ’26 Götterdämmerung e poi tutto di fila, ne è l’esempio perfetto: Thielemann ormai l’ha diretto ovunque, e certo lo dirige benissimo, ma è un benissimo più prevedibile dello sciopero dei mezzi al venerdì, mentre McVicar rifarà la sua produzione all’Opéra du Rhin, un Wagner anglosassone molto recitato e molto teatrale, senza filosofumo ma anche senza nulla che possa svegliare le care salme dal loro torpore fafneriano. Sarà un bell’Anello, non un Anello che cambia la storia dell’interpretazione e nemmeno che prova a mettere Wagner in connessione con il nostro tempo. In linea, insomma, con questa Scala: bella senz’anima.

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