La rivendicazione di una scritta sul muro in “Dilaga ovunque” di Vanni Santoni

Edoardo Rialti

L'autore cerca di tracciare l’infinito, inafferrabile caleidoscopio del writing e della Street Art, graffiti, dipinti, sticker che costituiscono il più vasto fenomeno artistico del nostro tempo, traduzione contemporanea delle mitologiche Vie del Canto percorse da Chatwin

"Come in cielo così in terra. La volta degli astri è stata ed è il nostro primo fondamentale affresco, “una tela tenebrosa e indifferente, scalfita da minuscole tacche di luce”, scriveva Roberto Calasso nel “Cacciatore celeste”. “Soltanto quello rimaneva, fra moltitudini di eventi, di gesti, di esseri. Soltanto quello era stato eletto a mantenere un significato, una forma che ogni notte si riaccendevano”. E’ a quella danza perpetua che si ispirano anche le prime raffigurazioni su roccia, nel tentativo di proiettare una geometria sull’universo e sul nostro posto nel cosmo. Vanni Santoni nei suoi romanzi-saggi per Laterza si è occupato di quante vengono definite sottoculture, ma sarebbe meglio chiamare fiumi carsici che percorrono in forme diverse la storia dell’umanità, punte di iceberg assai più vasti. Dal nietzscheano “ballare la magia” della free-tekno ai riti di iniziazione sempre ripetuti, mai effettivamente realizzati, dei giochi di ruolo. “Dilaga ovunque” fin dal titolo cerca di tracciare l’infinito, inafferrabile caleidoscopio del writing e della Street Art, graffiti, dipinti, sticker che costituiscono il più vasto fenomeno artistico del nostro tempo, traduzione contemporanea delle mitologiche Vie del Canto percorse da Chatwin. Un diluvio di “segni autonomi, non ufficiali” che esprimono “la natura di rivendicazione naturale universale: tutti possono dipingere o scrivere su un muro, come tutti possono parlare”. Una galassia di immagini, collassi, fusioni, battute, slogan, semplici firme, piccole e grandi percezioni, scriverebbe Leibniz, per cui “il presente è gravido dell’avvenire e carico del passato”. Per Santoni si tratta dell’“ingresso, nel campo semiotico consueto, di un’anomalia. Di qualcosa che celava un significato occulto e che quindi, per quanto prosaico o scherzoso potesse essere, aveva un carattere ineludibilmente iniziatico”. Ancora una volta. Significativamente, in una delle prime scene, addentrandosi illegalmente in uno spazio dove si potrebbe essere beccati dalla polizia, l’atto creativo e di protesta è inscindibile da “una trasfigurazione – in predatore, ma pure in preda: l’adrenalina amplifica i sensi; l’udito ora coglie ogni suono, anche minuscolo, vicino o lontano, e riesce a posizionarlo”. Come nella preistoria.

 

Una delle caratteristiche più interessanti della scrittura di Santoni è la sensazione di ritrovarsi, aprendo la prima pagina, nel flusso di un discorso e un pensiero che è iniziato molto prima e prosegue potenzialmente ben oltre l’ultima pagina. In questo caso l’immenso quesito sulla natura dell’arte, la sua connessione con lo spazio, la sua riproducibilità, dai meme all’arte digitale ma anche agli stilemi dei pittori di Madonne del Trecento. Così come la costante tensione tra universalità del messaggio e desiderio egotico di lasciare una traccia personale, individuale, del proprio essere effettivamente esistiti, dell’essere stati qui: “Scrivere il tuo nome è la prima cosa che ti insegnano a fare a scuola, o no? Scrivilo chiaro sulla prima facciata del compito. Scrivilo nella prima pagina dei quaderni (c’è pure lo spazio apposta), scrivilo sulla porta della cameretta, sul tuo salvadanaio, sul tuo primo libretto bancario per bambini alla Cassa di Credito Cooperativo… E infatti tu lo avevi imparato così bene che lo incidevi pure sul banco di scuola col trincetto, e poi coloravi i solchi con la china”. Una questione mai scindibile dall’ironia di chi sa sempre cogliere anche la banalizzazione e strumentalizzazione cui sono soggetti tutti i linguaggi espressivi, con la street art che “ormai tira su cani e porci come un montacarichi” e “comincia a esser di moda scrivere nelle bio, tant’è che lo trovi in quelle di gente che al massimo ha fatto una scritta nei cessi dell’Accademia”. Eppure in essa paiono comunque declinarsi una sfida e un conforto diversi rispetto alla competizione e al fallimento insiti in altre opere, per come un simile tentativo collettivo si inserisce in un mondo “in costante guerra semiotica”, dove la comunicazione è diventata la quarta dimensione in cui tutti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, e lo spazio pubblico non è mai neutro, ma perennemente aggredito da altre narrazioni che erigono muri e steccati e confini perlopiù ammantati dalla retorica del decoro e del riscatto del degrado. Tutti filtri che plasmano le vite dei singoli e delle comunità, cui continua a opporsi un altro immaginario, una moltitudine, una maglia di viaggi, connessioni, barriere abbattute, un respiro universale, giacché, come notava Pasolini, la verità non sta in un sogno, ma in molti sogni. “Prima evocavi l’animale, oggi evochi… Cosa evochi? Tante cose”. In un brano sapienziale del Midrash, che prende le mosse dalla radice del nome Abele, “fiato”, e Caino, “acquisire, possedere”, si afferma che Caino ottenne la proprietà di tutto il mondo, Abele di tutto ciò che vive, e che Caino accusò il fratello di avere sconfinato. Lo uccise e divenne il fondatore delle città. Appunto.

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