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In libreria

Le donne, la morte e Max, il Grande Immorale buono per caso e per ripicca

Marco Archetti

Un quasi noir ambientato negli anni Dieci del secolo scorso a Varsavia, profondo e sorprendente. Adelphi pubblica un altro romanzo inedito di Isaac B. Singer

"Perché andare dritto, quando puoi prendere la strada storta?”. Tutto Max Shpindler in una frase: Max faccia butterata, Max polacco e argentino, Max virtuoso nella circuizione delle minorenni, nella fattispecie della povera Rashka (“era solo una bambina, ma l’aveva trascinata nel fango”), ragazzina che gli viene offerta su un piatto d’argento dall’amico di una vita, Meir detto Panna Acida, il ras di via Krochmalna, malvivente di Varsavia sempre in possesso di una certa vischiosa saggezza, ambiguo fornitore di documenti falsi e santo pappone senza scrupoli, finanziatore di sicari e di scuole talmudiche. Max, dicevamo. Colpevole di abbandono del tetto – d’hotel – coniugale anche se non è sposato. Max che vive da anni un sodalizio erotico, sentimentale e professionale con Flora, ex attrice di Varsavia ed ex una serie di cose tutte da chiarire, tenutaria insieme a lui, in Argentina, di un negozio di borsette che fa da copertura a un intenso traffico di ragazzine. Max mai gangster fino in fondo e tuttavia Grande Immorale, Max con pulsioni al bene ma senza esito, aspirante sincero però senza principi. Come il patriarca Giacobbe, “pronto per la pace e per la guerra”. Max pistola sempre in tasca, sfidato dai demoni alla roulette russa.

 

E’ Max – quest’ipersingeriano Max – il grande protagonista di Max e Flora (226 pp., 19 euro), terzo romanzo inedito di Isaac B. Singer che esce oggi per Adelphi dopo Keyla la rossa e Il ciarlatano. Pubblicato a puntate per il quotidiano yiddish Forverts di New York da aprile ad agosto 1972, appare oggi per la prima volta in volume. Ed è un quasi noir ambientato negli anni Dieci del secolo scorso a Varsavia, dove la coppia torna per arruolare ragazzine da avviare alla cattiva strada, qui lastricata di borsette. E’ un romanzo d’appendice profondo e sorprendente, diviso in tre parti.

Nella prima entrano in scena Max e Flora, e va detto subito che quello di Flora è un ritratto che, forse, avrebbe meritato più spazio: donna fragile e analfabeta che si vergogna di essere entrambe le cose, dopo l’abbandono di Max – il quale, semplicemente, si assenta per affari e poi, come spesso nei romanzi di Singer, soverchiato dagli eventi è, altrettanto semplicemente, impossibilitato a tornare – si getta tra le braccia di un attore, Feivele Shechter, un mediocre di mezzo successo che le offre la possibilità di tornare su un palco (ma la pièce è scarsa, e loro due anche).

La seconda parte racconta il peregrinare di Max in fuga con la quindicenne Rashka, mentre cerca di capire cosa fare della propria vita dopo che ha finanziato, chissà perché, uno squinternato gruppo di anarchici intenzionati a scavare una galleria alla Dino Risi, che da una libreria dovrebbe portare al caveau di una banca che le sta di fronte. Una delle militanti cercherà anche di portarselo a letto, ma Max suda, balbetta, inciampa, e insomma, fallisce miseramente. Dopo un intenso scambio dialettico con uno scrittore che gli sembra sapere la verità (“Dio è cattivo, bisogna essere buoni per ripicca”), dopo aver regalato denaro, per caso, a due bambini e alla loro madre, e dopo che è finito, quasi senza accorgersene, proprio nel teatro in cui Flora e l’attore stanno provando – quando vede la fidanzata sul palco e ne saggia la mediocrità, ecco che vede anche se stesso – Max crolla. “Anche un assassino conosce i suoi limiti”. 

 

La terza e ultima parte è forse la più bella, perché è qui che Isaac Singer tenta l’indicibile: raccontare la morte, in soggettiva. Raccontare quell’istante che Jack London, in Martin Eden, aveva catturato così: “Nel momento in cui seppe, smise di sapere.” Poi c’è anche la morte di chi resta, certo, e una trafila di teppisti che accorre ed è già in piena guerra fratricida per la successione. Max  ha una premonizione: non rivedrà Buenos Aires, perché per uno come lui la vita è un bicchiere posato al bordo di un tavolo. E il tavolo traballa. “Quanto durerà, tutta questa storia, in fondo?”. Poco, pochissimo. Meno del tempo di domandarselo.
 

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