Foto di Fabio Frustaci, via Ansa 

L'estratto

L'uomo moderno davanti alle minacce della contemporaneità. Il saggio di Marcello Pera

Marcello Pera

Nell'introduzione del libro "La detronizzazione della verità" si legge: l'umanità ha perso il concetto di salvezza e lo sta sostituendo con quelli di convenienza, utilità, progresso

Pubblichiamo un estratto del saggio introduttivo di Marcello Pera al libro “La detronizzazione della verità”, di Dietrich von Hildebrand. Il volume (96 pp., 15 euro) fa parte della collana “Come se Dio fosse” ed è da oggi in libreria.

Se la detronizzazione della verità “è una delle caratteristiche più minacciose dell’epoca attuale”, non la si può affrontare cambiando epoca. Neppure per i credenti cristiani il desiderio di svelare il vero e lo stupore di fronte al vero possono essere “sostituiti dalla preoccupazione di difendere ogni dettaglio del sistema aristotelico-tomistico”. Se il male è spirituale e morale, da lì si deve partire. Rimettere Dio sul suo trono. Ascoltare la sua parola. Non credere di diventare come lui. Non smettere di pensarci e considerarci come creature, esseri fragili e finiti e bisognosi di aiuto. Pensare che la nostra vocazione si svolge in questo mondo ma trova il suo compimento, la piena soddisfazione, solo nell’altro.

L’uomo moderno è affetto da sindrome di tracotanza: ha cominciato col separare il sapere dalla fede, ha poi esaltato il primo a spese della seconda, ha infine pensato che la religione sia una dimensione minore, accessoria, transitoria, non indispensabile, che, una volta tolta o superata, lo porrà nella condizione di fare da sé ed essere arbitro unico del proprio destino. L’uomo moderno ha così perso il concetto di salvezza e lo sta sostituendo con quelli di convenienza, utilità, progresso, e simili nozioni secolari. Oppure con il concetto inebriante di libertà. Non si accorge che la libertà degenera nel suo contrario, se rinnega la norma assoluta che la regola.

Questo tipo di uomo va richiamato alla sua responsabilità. Deve correggere la propria educazione, deve governare i suoi propri manufatti, la stampa, la cultura, l’arte, la radio, la televisione, il cinema, internet. Deve tornare a provare lo stupore e, con lo stupore, deve far crescere l’ammirazione che egli deve a chi ha creato le cose che stupiscono: il bello, il bene, la misura, l’armonia, l’ordine. Se la modernità gli ha dato il potere immenso della ragione, la stessa ragione, correttamente ascoltata, lo fa scoprire debitore e bisognoso della fede.

“Esistono vari modi in cui una realtà metafisica può rivelarsi alla nostra mente”, dice von Hildebrand. E qui Kant torna più utile di quanto egli pensi. Quale rivelazione? Come rivelata? Se Dio si presentasse alla mia mente, potrei riconoscerlo solo da ciò che mi dice, non dalla forza con cui mi si impone, non dalle sembianze che assume. Se, ad esempio, mi chiedesse – e può accadere – di usare violenza, mancanza di rispetto, sottomissione degli altri, privazione della persona come valore in sé, dovrei concludere – la mia stessa ragione mi porta a concludere – che non è veramente Dio colui che mi parla.

Ecco perché, conclude Kant, noi dobbiamo sostituire “Dio esiste”, “Dio dice”, con “Dobbiamo postulare l’esistenza di Dio”, “Dobbiamo credere che Dio esista per dar senso e forza a ciò che noi dobbiamo dire e fare”. Von Hildebrand vede in questo ragionamento di Kant – del “sistema gigantesco di Kant”, come pure egli stesso lo chiama – un’altra forma della detronizzazione della verità. “La libertà della volontà, l’immortalità dell’anima e persino l’esistenza di Dio non dovevano più essere dimostrate come fatti reali e professate come verità, ma erano ora semplicemente assunte perché non si poteva fare a meno di esse”.

Ma così pensando, von Hildebrand trascurò un altro aspetto che preoccupava Kant e che, di fronte a tanti fanatismi odierni, deve continuare a preoccupare noi. Un Dio “dimostrato come fatto reale” non c’è; e chi crede che una dimostrazione possa darsi, deve riflettere che ogni dimostrazione, compresa quella metafisica se mai la metafisica ne producesse una e cogente, è una conclusione dell’intelletto, perciò sempre controvertibile, sempre fallibile. E un Dio alla mercé di un’argomentazione fallibile è esso stesso fallibile, cioè non è Dio. “Perderei veramente ogni saldo fondamento della fede – dice Kant – se essa diventasse motivo di disputa per me”.

Solo Dio come bisogno della ragione, come ipotesi necessaria, come postulato indispensabile, è al riparo da ogni confutazione, come da ogni tentazione fanatica di tracotanza. Del resto, von Hildebrand obbietta a Kant ma è poi costretto a riprenderlo e quasi a ripeterlo. Nella sua grande Etica (1953), che è preludio filosofico generale e razionale all’etica cristiana, come la Critica della ragion pratica è introduzione razionale al cristianesimo morale, egli scrive: “i valori morali, la legge morale, l’ordine morale, l’obbligo morale, la voce della nostra coscienza, presuppongono oggettivamente Dio, e sono quindi per la nostra mente e per la nostra conoscenza accenni all’esistenza di Dio”. Kant si era spinto a dire anche di più: sono “prove morali” dell’esistenza di Dio.

Ma questo è motivo di disputa filosofica. Resta intatta, possente, profonda, lungimirante, la lezione di von Hildebrand. Egli fu un così grande combattente per la libertà, perché ebbe chiaro che quella era la lotta non solo della democrazia contro i totalitarismi nazista e bolscevico, ma, ben più radicalmente, della verità contro la sua detronizzazione. Una voce limpida, e alta e chiara, la sua, nel momento delle tenebre che ieri si svolgeva attorno a lui e del male oscuro che oggi corrode e minaccia noi.

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