il foglio del weekend

Vent'anni dopo cosa resta di Albertone re d'Italia

Michele Masneri

Vent’anni fa se ne andava Sordi, un mese dopo Gianni Agnelli. Due enormi funerali, due italiani, e un’epoca che tramontava

Nel 2003, vent’anni fa, l’Italia fu scossa da due lutti, due funerali che segnarono la fine di un’epoca. Il 24 febbraio muore Alberto Sordi, e lì Roma si risveglia dal secolare torpore e organizza una colossale cerimonia funebre per il grande attore che più di tutti ha esportato e celebrato la romanità: camera ardente al Campidoglio, che va avanti per giorni, e poi funerale di folla, mezzo milione di persone di fronte alla basilica di San Giovanni, diretta del Tg1, il presidente della Repubblica Ciampi, picchetto dei vigili urbani che portano a spalla il feretro, coi caschi indossati, sulle note di “Alba romana”, motivo realizzato appositamente dal prete-compositore don Marco Frisina (“Er sole spunta tra li colli / La luce torna dentr’ai vicoli / O Roma sembra tutta’na regina / E splende tutta come ’na corona”). Corteo di vescovi in alta uniforme. Omelia del cardinal Ruini. Discorsi sotto un enorme gazebo di Walter Veltroni e Carlo Verdone, Gigi Proietti legge un sonetto. (“Io so’ sicuro che nun sei arrivato ancora da San Pietro in ginocchione / a mezza strada te sarai fermato / a guarda’ sta fiumana de persone. Te rendi conto sì ch’hai combinato / questo è amore sincero, è commozione, rimprovero perché te ne sei annato / rispetto vero tutto pe’ Albertone”). Striscioni: “stavolta c’hai fatto piagne”; “Sor marchese su basta co’ ’sti scherzi, dai Albertone riarzete”, citazione ovviamente dal Marchese del Grillo. Mi ricordo di quei giorni i taxi che circolano listati a lutto, con un nastro nero appeso all’antenna. (Tassisti, preti, vigili erano del resto la costituency molto romana di Albertone). Il giornale della Lega titolò: “E’ morto un attore romano”. Sul Corriere della Sera invece un necrologio batte tutti: “Ciao, Cretinetti. Franca Valeri, Milano”. Il funerale di Alberto Sordi chiudeva un’epoca per Roma, chiudeva la fase “up” della capitale ben amministrata, la coda lunga del Giubileo, lo splendore degli anni Novanta, la Roma rutelliana, motorino e grandi mostre. Dopo verranno Alemanno e i degradi. 

 

Ma un mese esatto prima, il 24 gennaio, era morto un altro celebre italiano, Gianni Agnelli. Ciampi anche lì presente. La folla si inerpicava su al Lingotto per stringere le auguste mani della famiglia che si alterna nella compostezza torinese. Anche lì, è finita un’epoca. Finita sembrava la Fabbrica Italiana Automobili Torino (la Fiat era sull’orlo del fallimento, non essendo ancora arrivato un manager sconosciuto di nome Sergio Marchionne, scoperto dal fratello Umberto Agnelli). Finito tutto. Nessuno né in un caso né nell’altro fece un discorso alla Moravia, ma si sarebbe potuto: quanti italiani nascono in ogni generazione? Col duplice funerale finivano due tipi di “arcitaliani”, si disse. Sordi che aveva descritto in modo unico il nostro modo di essere (ma Enrico Vanzina sostiene il contrario: Sordi aveva inventato un tipo, che gli italiani si misero a imitare pensando rappresentasse loro). Anche Agnelli, si sforzava tanto di fare l’italiano. Lui divenne il modello aspirazionale: lo sciupafemmine internazionale, cosmopolita, il gessatone e l’orologio sul polsino, la vita sartoriale tra Villar Perosa e Park Avenue (mentre la fabbrica decadeva). Sordi invece è il romano, pigro, papalino, l’italiano che tutti sono chissà perché convinti di essere. 

Due italiani amatissimi allora, abbastanza inservibili oggi, con le loro massime (“che me metto in casa un’estranea?” e “solo le cameriere si innamorano”). Due uomini incredibilmente simpatici (l’italiano non può non essere simpatico). Grandi battutisti. Il repertorio di Albertone è infinito, passato poi per altri comici (saccheggiato da Christian De Sica ma poi da tutti noi: “Ammazza oh”, “boni, state boni”, “a me m’ha rovinato ’a guera”). E poi l’intercalare romano, la domanda ripetuta, per prendere tempo, passata anche a Giorgia Meloni: come ha segnalato Andrea Minuz, Meloni deve parte del suo successo a un sordismo di base che la rende “leggibile” e inoffensiva nella percezione. In un discorso serissimo alla Camera, si interrompe per riprendere fiato, “gnaa faccio, ’sto a mori’”. Anche il repertorio dell’Avvocato non scherza. Sempre pronto, fuori dagli stadi o in studi televisivi. Al massimo industriale italiano non si chiedono previsioni sul pil, ma una battuta sul calcio. Quel giocatore? “Pinturicchio”. Quella giovane ministra? “Assomiglia a una segretaria. Ma non la mia”. Tanti spezzoni che si trovano in Rete: uno che va per la maggiore è quello sul mafioso pentito Buscetta: Enzo Biagi con calzino bianco gli dice che Buscetta è tifoso della Juve. Agnelli risponde: “Se lo rivede gli dica che di questo non dovrà pentirsi”. Agnelli nel pronunciare la battuta ha un moto di tristezza, ha una specie di scarto, forse è noia, forse un po’ si vergogna di dover fare sempre il brillante (magari era tutto preparato). Sia Sordi che Agnelli sono due conservatori, pragmatici, uno cattolico e uno laico; sono completamente disillusi, incarnano una specie di cinismo benigno, non sono né buoni né cattivi, conoscono a fondo il paese, sanno che forse il meglio che si può fare è appunto ridere, e far divertire. Sordi nato povero a Trastevere, nella Roma di una Chiesa millenaria. Agnelli nato miliardario nella Torino rigida. Sordi riconosce nei politici romani e nella Chiesa il potere. Agnelli li disprezza ma gli servono. Si dice che nella casa di via XXIV maggio quando proprio è costretto a invitarli faccia preparare cibi assurdi, impossibili da mangiare o insultanti (anche, testicoli di toro). 

 

Contatti tra i due: Sordi raccontava di un pranzo a Villar Perosa dove viene servita una solita parca mensa; ma la mitologia sulla parca mensa Agnelli è abbastanza un cliché. Sordi invece vantava digestioni pantagrueliche, riti di tavola, la pasta, il bucatino, il riposino, in questi giorni il Messaggero riporta i ricordi di osti romani, Perilli a Testaccio, un altro che aveva uno speciale tronetto per Albertone, e da bere “greco di tufo con una goccia di prosecco”, le ghiottonerie di un vecchio scapolo. Sono due uomini soli, infatti, fondamentalmente. L’Avvocato con la sfilza di fidanzate, forse un grande amore non possibile con l’erede Churchill, poi Marella come sinecura blasonata. Sordi con il gineceo molto pascoliano delle sorelle e i misteri. Agnelli con le sue case da Architectural digest, midollino e Gae Aulenti, e Sordi a Roma con quella specie di Vittoriale issato tra le rovine. Lì, dove oggi c’è la casa museo, si andò a vedere: un gusto dell’accumulazione molto dannunziano: Telegatti, madonne con bambino simil Beato Angelico, sculture bronzee da trattoria; il ritratto a olio che gli fa Rinaldo Geleng, tre De Chirico, un de Pisis con un vaso di fiori smorto, tante foto di Papi, vedute, bronzetti, scuole napoletane, Pannini, nature morte, legno e finto legno. “Se non fossi stato attore avrei voluto essere antiquario”, diceva. “Se non fossi industriale sarei giornalista”, diceva Agnelli. 

 

Albertone aveva comprato la sua villa nel ’54 da “Sua Eccellenza Cav. di Gran Croc. Dott. Alessandro Chiavolini”, che era stato un ministro fascistissimo, già aiutante di Mussolini, processato e amnistiato. La villa la voleva pure De Sica, ma aveva problemi di soldi. Sordi invece nel ’54 ha 30 anni, è liquido, ha già fatto 13 film tra cui “Un giorno in pretura”, “Un americano a Roma”, “Il seduttore”. Ha l’energia di un ragazzo ma l’esperienza di un uomo (come dirà il Dentone, uno degli “italiani” inventati da lui, eterno ragazzo di mezza età). Poi prenderà l’archistar Busiri-Vici (cognome molto sordiano, come l’avvocato Pigna-Corelli di “Troppo forte”) per i restyling. Pronto per “move in” con le due sorelle amate, Savina e Aurelia. Agnelli detestava invece i parenti, e sarebbe inorridito da quel ménage e quell’arredo. 

 

Nel ’54 l’Avvocato si è appena sposato con Marella Caracciolo (sposato con la stampella, dopo uno dei tanti incidenti; a Strasburgo, dove il suocero è segretario generale al Consiglio d’Europa); in quell’anno ha il primo e unico figlio maschio, Edoardo, che sarà la tragedia della vita sua, morto suicida nel 2000 buttandosi in pigiama da un viadotto. Sordi non avrà invece discendenza. Sia Agnelli che Sordi sono poi amanti dell’America. Agnelli vi ha grandi frequentazioni, è il garante atlantico degli strafalcioni italiani, va in barca coi Kennedy e intrattiene la first lady in Costiera. Potendo, in un’altra vita, ci vivrebbe, in America. E Albertone?

 

In questi giorni, con lo strano tempismo con cui gli americani scoprono i consumi culturali delle colonie, vi spopola “Una vita difficile”, il film scritto da Rodolfo Sonego e girato da Dino Risi nel ’61 (anche Timothée Chalamet interrogato su quale fosse il suo film preferito ha citato quel capolavoro). La trama: Silvio Magnozzi, intellettuale di sinistra, ex-partigiano, giornalista, scrittore, imprigionato per tentata insurrezione dopo l’attentato a Togliatti, poi lacchè di un commendatore potentissimo, non riesce proprio ad adeguarsi al “sistema”. Il clou è la sera in cui, non avendo una lira, Magnozzi e la moglie finiscono a cena dai marchesi Rustichelli, monarchicissimi, che potrebbero essere dei parenti torinesi degli Agnelli (e si mangia pochissimo come si pensa a Villar Perosa). E’ la sera del referendum in cui vincerà la Repubblica. E i Magnozzi se magnano tutto, tra i nobili che abbandonano la tavola nell’Italia che diventa Repubblica.

 

Non si sa quanto potrà capire il pubblico americano di “Una vita difficile” (qualche anno fa in California si assisté a una proiezione del “Sorpasso” e nessuno rideva in sala). Il New York Times rileva come “It’s a movie about a great many wonderful and vexing things, including love, honor, money, cinema, politics and Alberto Sordi’s remarkable chin”. Sottolineano come molte scene siano girate vicino al “Lake Como”, fondamentale per i real estate dei desideri internazionali. Anche Sergio Leone pensava che una versione americana di “Una vita difficile” sarebbe stata un gran successo. In realtà Sordi aveva sempre cercato di sfondare in America: ma non è mai andata bene perché poi i suoi film “esteri” erano sempre così così, turistici, sempre con gli spaghetti e la marchetta alla compagnia di bandiera. Ci fu tra gli altri “Un tassinaro a New York” nel 1987, remake del “Tassinaro” originale di quattro anni prima, non già un capolavoro. Con cameo di Fellini e Andreotti. Il copione prevedeva che appena il senatore si fosse sistemato dietro, il tassinaro Pietro Marchetti lo accogliesse grosso modo con questa battuta: “Ammazza, senatore… ma quant’è svelto lei a occupare il posto!”. Ma non ci fu verso. Il povero Sordi non se la sentiva, non riusciva a dire la battuta. Lui, cattolico, democristiano, romano, era paralizzato dalla presenza andreottiana. Marina Ripa di Meana doveva pure fare sé stessa ma pretendeva d’essere pagata, e lui non se la sentiva manco di pagare. Il remake è pure peggio: “Come in tutti i film di Sordi all’estero, oltre agli spaghetti, ogni dieci minuti di pellicola ci sono 45 secondi di siparietto ambientale: musichette, atmosfere, paesaggini, e le solite cose che ti aspetti come la polizia a cavallo a Central Park”, scrive Tatti Sanguineti nel fondamentale “Il cervello di Alberto Sordi” (Adelphi). L’America è destinata a rimanere un sogno, quello dell’Americano a Roma, Moriconi Nando.

 

Sordi, o meglio i suoi personaggi, erano poi iperattivi, ambiziosi, incapaci di star fermi. Se l’Avvocato saltava da una barca a un elicottero, gli italiani di Sordi erano tarantolati. Nei suoi film può essere un mercante d’armi (“Finché c’è guerra c’è speranza”), di mobili (“In viaggio con papà”), un medico più o meno corrotto (“Il dott. Tersilli”), un giudice integerrimo (“Tutti dentro”), un giornalista idealista-incapace e mitomane (appunto “Una vita difficile”), un venditore di stoffe e tappeti (“Scusi, lei è favorevole o contrario”), ma comunque tutto si può dire tranne che se ne stia con le mani in mano. Anzi, si agita sempre molto, desidera molto: soldi e successo. Quasi sempre questo gli costa altissimi prezzi, e più spesso ancora non otterrà alcun risultato, torna allo status quo di prima, nello sberleffo generale (la ricerca del successo che non arriverà mai è una molla specifica della comicità all’italiana, è la buccia di banana Italian Style: in America dove il successo e i soldi sono una cosa seria non fa ridere per niente). 

 

A ben vedere poi i personaggi di Sordi sono tutti matti (teoria di Tatti Sanguineti). Matto il “Vedovo” che nei primi minuti del film ammette di essere appena uscito da una clinica psichiatrica; matto il Dentone, che pensa di essere bellissimo; matto il marchese del Grillo coi suoi scherzi deliranti. Matto da ricovero il suddetto avvocato Pigna-Corelli. Matto “Il Vigile”, un bamboccione proto-cinquestelle che si pensa destinato ad altissime riuscite, mattissimo l’aristocratico romano sfessato che soccorre un ferito tra una serata al Jackie O’ e un appuntamento dai parenti per discutere dello “scisma Lefebvre” (episodio “First Aid” dei “Nuovi mostri”, detto anche “del navigatore solitario” o “del malconcio”. Impressionante lì il mimetismo. Sordi fa l’ubriaco, Sordi amava fare l’ubriaco, c’è sempre una scena di ubriachezza, spesso con pecore, nei suoi film). Sono molto matti i primi personaggi, il compagnuccio della parrocchietta e Mario Pio. E’ interessante quest’identificazione degli italiani con un pazzo. Era matto anche l’Avvocato? Certo, a ben vedere, tutte le ricerche sugli abiti e le femmine e le case e le auto quando poi i fatturati calavano e i figli soffrivano… E poi Marella vituperava nel marito quell’aspetto che aveva denominato appunto “Gennarino o’ pazzo”. Dannunziani entrambi, uno nell’arredo e l’altro nella vita. Dopo la morte di entrambi le rispettive famiglie implodono, le questioni ereditarie deflagrano. L’eredità sordiana diventa una specie di Vaudeville tra presunte ruberie, maggiordomi forse ladri, parenti sconosciuti che spuntano. La sorella Aurelia fa una serie di donazioni al personale di casa e subito si parla di circonvenzione di incapace. Il tribunale di Roma nel 2019 stabilirà che i lasciti sono invece regolari. In casa Agnelli la figlia Margherita sostiene d’esser stata raggirata, e cerca senza tregua prove di residenze fiscali fittizie, patrimoni celati, risarcimenti forse anche sentimentali. Di entrambi rimangono memorie, molti filmati su YouTube, affetto soprattutto tra noi più anziani. Due italiani particolarissimi, stranissimi, di cui gli italiani si sono innamorati, e come nell’amore abbiamo deciso che l’amato sia proprio uguale a noi, anche quando tutto suggerisce il contrario.

 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).