Raccontare un massacro. Il podcast su Willy Monteiro va oltre il rumore di fondo

Enrico Cicchetti

La storia di un brutale pestaggio che è anche quella di una generazione ferita, a cui ridare una voce. Il suono della solitudine, la violenza, la fine della comunità e l'entità del disastro a cui siamo di fronte. Parlano gli autori Christian Raimo e Teho Teardo

Non gli interessa vendere. Eppure hanno per le mani un prodotto tra i più singolari e appetibili tra i nuovi podcast. Uno che di sicuro andrà molto bene ma che andrebbe a ruba, a incasellarlo nello scaffale giusto. Tra "Demoni urbani" e "Nero come il sangue", giusto per citare due titoli che tirano in quella baraonda super scaricata e richiestissima che va sotto il nome di true crime. Mentre c'è chi si accapiglia per raccontare il serial killer più sanguinario o chi rispolvera casi di nera degli ultimi cinquant'anni alla ricerca di una soluzione nuova e acchiappaclic, loro fanno un'operazione in chiave opposta: si prendono quasi due anni di lavoro per raccogliere le voci di una generazione e raccontano un delitto come fosse un concept album.

   

Da lunedì 20 febbraio è disponibile il primo episodio della serie “Willy, una storia di ragazzi” dello scrittore Christian Raimo, dei giornalisti Alessandro Coltrè e Alberto Nerazzini e dell'attore Claudio Morici, con la drammaturgia sonora di Teho Teardo, realizzato da Dersu Productions e Storielibere.fm. Dopo il podcast uscirà anche un libro per Rizzoli.

 

    

Il caso è di quelli che sono rimasti in prima pagina a lungo, che hanno richiamato le tivù e agitato i sonni dei sociologi. Uno di quelli da scomodare il Quirinale, lustrare le medaglie d'oro, di quelli che poi fanno inasprire le pene, come se servisse a qualcosa. Un caso chiuso, con dei colpevoli e una sentenza di primo grado, che si potrebbe raccontare in poche parole: un ventunenne pestato a morte in una cittadina di provincia solo per avere tentato di difendere un amico in difficoltà. Oppure sul quale si potrebbe (si è potuto) ricamare con affettazione e retorica, con superficialità e sensazionalismo. "Negli ultimi anni abbiamo ragionato a lungo sulla non-fiction novel, sul modo di raccontare stile Capote/Carrére", ci dice Christian Raimo. "Qui abbiamo sposato un modello diverso: invece del racconto personale e romanzesco abbiamo cercato di privilegiare il dato materiale: quanto conta in questa storia il fatto che ad Artena, il comune dal quale provengono gli assassini di Willy, 14mila abitanti, non ci sia una scuola superiore? Quanto il fatto che il comune sia commissariato? Quanto guadagnava Willy per il suo lavoro di cuoco? Quanto guadagnavano i fratelli Bianchi che, insieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, lo hanno ammazzato a calci e pugni davanti a un locale di Colleferro? Raccontare per esempio che i due picchiatori campavano dei proventi della loro attività di recupero crediti per lo spaccio ma anche di reddito di cittadinanza ci dà uno spaccato diverso, una prospettiva nuova sulla storia".

   

Il tentativo – riuscito – è quello di andare oltre ciò che Raimo definisce con un efficace neologismo la "cronacanerizzazione" di tutto. Perché questa non è solo la storia di un brutale omicidio, "È la storia di una città, di una comunità, di una generazione ferità. È una storia di maschi".

È una grande seduta di racconto collettivo, è un dramma classico con il suo coro, ed è anche un piccolo rito di elaborazione del lutto, fatto attraverso le parole di ragazzi e ragazze, dei famigliari di Willy, degli ex compagni di classe, della comitiva con cui usciva la sera. "Quei ragazzi è come se non li sentissimo mai. Quando hanno potuto intervenire nel discorso pubblico?", si chiede Raimo. "Nel podcast c'è il coro delle loro voci e c'è quello delle nostre tre, di Claudio, Alessandro e mia, ognuno con un'autorialità e un approccio diverso. E poi c'è la drammaturgia sonora di Teho Teardo, che è un'altra voce ancora, con un ruolo forte nella narrazione". Qualcosa che rende unico questo podcast. In fondo, in quelli che conosciamo, nonostante il lavoro di bravissimi sound designer, la musica è al servizio della parola. "Volevamo che qui fosse il contrario", aggiunge l'autore, "volevamo che ci fosse un rapporto anche di contrasto tra parole e suoni. Non ci interessava cercare la consonanza, ma solo la convergenza di una sensibilità di fondo, di un'etica comune: il rispetto per la verità". 

       

"Detesto gli stacchetti musicali, sono raggelanti", taglia corto Teho Teardo, che ha alle spalle molte colonne sonore per teatro, tv e cinema (quella del Divo di Sorrentino, giusto per dirne una), una gran serie di album da solista e collaborazioni eccezionali (quella con Blixa, per dirne un'altra). A Colleferro, la scena del dramma, ha raccolto registrazioni ambientali ("io sono un registratore umano, un essere microfonato", scherza) e registrato suggestioni mentali. "All'inizio non sapevo come entrare in questo lavoro - prosegue - ma la cosa che ci interessava era fare ascoltare le voci dei protagonisti. Ma per capirle devi andare oltre il rumore di fondo. Nel podcast il rumore di fondo è quello della pioggia. Quel suono va isolato e superato per ascoltare chi ha qualcosa da dire. La musica anticipa o rielabora ciò che il testo racconta in altra forma". Sotto quel rumore di fondo cosa si sente? "Il suono della solitudine, della mancanza di empatia".

    

Un'operazione imprevedibile, per raccontare qualcosa che tutto sommato si poteva pronosticare, dice Teardo. "Non c'è nessun giallo, il mistero è in noi. Cerchiamo di non vederlo, ma se avessimo potuto mettere tutti i personaggi di questa storia in una scatola e li avessimo potuti guardare da fuori, dall'alto, il loro destino era prevedibile. Certo, il caso ha un ruolo importante: invece di Willy potevamo esserci tu o io. Ma c'è qualcosa che va oltre la morte 'accidentale' di una persona e che ci mostra qual è l'entità del disastro che ci troviamo di fronte: il trovarsi sguarniti di legami. Da giovane mi sono trovato in risse e situazioni di estrema violenza, ma credo sarebbe stato impossibile finire, da solo, in balia di una violenza del genere. Negli anni Ottanta frequentavo la scena punk: a un concerto hardcore ti potevi buttare di schiena dal palco: qualcuno ti avrebbe preso. C'era sempre una rete di persone che ti teneva. Ecco, il verbo è 'tenere'. Il quel momento nessuno ha tenuto Willy e nessuno ha trattenuto i suoi assassini". 

  

"I fratelli Bianchi erano i 'rider' della violenza", aggiunge Christian Raimo, che spadroneggiavano su una comunità fragile nella solitudine di una provincia disgregata. "La chiesa di Colleferro è dedicata a santa Barbara protettrice degli artificieri perché in città si fabbricavano esplosivi. Proprio sopra l'altare c'è un mosaico con l'immagine della patrona che esce dalle fiamme e subito sotto è rappresentata la fabbrica. Una divinità di ferro che oggi non c'è più. Non c'è lavoro, non c'è stato sociale, dei ragazzi che abbiamo intervistato solo un paio vanno all'università, molti non hanno finito le superiori. Le alternative sono il mega stabilimento Amazon, l'emigrazione, il pendolarismo o la disoccupazione. Quella che fu una comunità operaia oggi non ha possibilità di conflitto". Ma la violenza, come l'elettricità, trova sempre altri canali per scaricarsi.

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  • Enrico Cicchetti
  • Nato nelle terre di Virgilio in un afoso settembre del 1987, cerca refrigerio in quelle di Enea. Al Foglio dal 2016. Su Twitter è @e_cicchetti