La raccolta delle discussioni di Ernst Bloch con i grandi del suo tempo

Elisa Veronica Zucchi

Da Lukács ad Adorno: discussioni, finora inedite in Italia, fra il pensatore tedesco di origini ebraiche e filosofi a lui contemporanei

Dov’è finito l’ardore che ha animato le grandi utopie del pensiero e della storia, mentre, invece, assistiamo all’orrore di una frustrazione di stampo sovietico, radicata anche nel fallimento del sogno bolscevico e dell’utopia del socialismo reale? Che cosa spinge già Platone nel IV sec. a. C. a delineare lo Stato ideale nella Repubblica? O Tommaso Moro, venti secoli dopo, a prospettare la sua Utopia, o, ancora, Campanella a plasmare la Città del sole? E’ solo un desiderio di fuga, o non, piuttosto, una volontà di adempimento e, parimenti, di ritorno in quella patria ideale che mai fu?

 

Le risposte a queste domande sono disseminate nell’intera opera di Ernst Bloch, di cui è in libreria Speranza e utopia, Conversazioni 1964-1975 (Mimesis, 2022, 142 pp.) che raccoglie discussioni, finora inedite in Italia, fra il pensatore tedesco di origini ebraiche e filosofi a lui contemporanei, come Lukács e Adorno. Bloch fu marxista, non epigono, solo in debito di riconoscenza verso il marxismo. Denuncia il positivismo e il tecnicismo esacerbato in quanto antirivoluzionari; esamina il rapporto fra struttura e sovrastruttura, nonché traccia il significato della sua utopia: essa deve essere vigile, poiché è “il sogno di una cosa” che si trasfonde nella corrente calda del marxismo, abita l’intimità della materia e la dischiude dialetticamente a un futuro che non è ancora divenuto: è speranza di  compimento e possibilità di redenzione dall’“opacità del reale”. Se poi la fuga non fugge, ma indaga una via soggettiva e oscura, intima e al tempo stesso ignota, che cosa abbiamo perduto insieme all’utopia, e che cosa annoda utopia e fuga? Dove si è smarrita la “coscienza anticipante”, ovvero la capacità di vedere, oltre il dato di fatto, quell’ambiguo sfondo in cui bisbigliano le possibilità del “meglio” e nel cui grembo chiaroveggente potrebbe germinare una “vita nova”?

  
Il filosofo del Principio speranza e dello Spirito dell’utopia vede lontano proprio perché è già lontano, cammina nel deserto, nel marginale, come argomenta Micaela Latini ne Il possibile e il marginale (Mimesis, 2005). Dagli amici è guardato con sospetto. Le numerose analogie fra Infanzia berlinese di Benjamin, con il quale vive un rapporto simbiotico, e Spuren (Tracce) inducono lo studioso della Qabbaláh e della mistica ebraica Gershom Scholem, nonché lo stesso amico, a pensare al plagio. Tuttavia la sua opera, ancora troppo trascurata, si riscatta da sé.

  
Figlio della Germania dello Jugendstil (di cui rifiuta il decorativismo) e dell’Espressionismo tedesco, Bloch sogna a occhi bene aperti e ci avverte: l’inconscio non è solo il rimosso, né è necessariamente collettivo, ma è la latenza di ciò che sarà, circondata dal pericolo. Nel 1933, con l’avvento del nazismo, emigra in Svizzera, dove, nel 1935, viene pubblicato Eredità di questo tempo.

  
Il messianismo mistico dell’autore, che afferma che solo l’ateo può essere un buon cristiano, ci insegna a cantare e a affabulare, sporgendoci dai bordi di un pozzo scintillante, laddove fuoriescono le figure dei sogni. Da quel bagliore oscuro, il canto si espande attraverso la porosità della materia, insufflato da una risonanza tellurica. Come l’anima cerca sé stessa nel suo albeggiare, così Orfeo scaccia le ombre e “ha per meta solo questa intimissima Euridice” (Spirito dell’utopia). Ma è la musica un mito? Invero, c’è una “musica nella musica”. Cos’era un tempo quello che ora è musica? Quale sogno vive dietro ai sogni? Come il contrappunto orchestra le note, così la qualità utopica del tempo stratifica e sovrappone le epoche nel vortice di una musica che vela la sua infanzia, e un Cristo della morale vela il Cristo della conoscenza.

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