(foto Ansa)

(1933-2022)

Scrittori, popolo e machiavellismi. La scomparsa del critico ideologo Alberto Asor Rosa

Matteo Marchesini

La sua principale vocazione consisteva nel ridurre all'osso i modelli di pensiero altrui, trasformandoli in un'arma passepartout rozza ma affilata. Peccato che la volontà di rimanere al centro della scena lo abbia portato a imbarcarsi in imprese inadeguate al suo profilo

Ha detto un grande critico che solo negli anni ’60 il ’900 si è rivelato pienamente a sé stesso, strappandosi di dosso gli ultimi civili indumenti ottocenteschi. Allora il secolo ha dichiarato a voce spiegata che l’intelligenza è una cosa sola con il male, cioè con un machiavellismo senza veli né limiti; e che tutto ciò che è sospetto d’innocenza, d’ingenuo pathos umanistico o di semplice lealtà morale esclude sia dalla vera vita sia dalla vera cultura. In un paese come il nostro, che in quel periodo passava bruscamente dalla civiltà contadina al boom e al ’68, questa rivelazione ha portato alla ribalta un tipo di intellettuale-politico la cui unica coerenza stava nella recita di una fredda spregiudicatezza, capace di garantirgli la vittoria su tutti i tavoli. Il suo atteggiamento era quello di chi disprezza la tradizione, ma è pronto a servirsene in qualunque modo per ragioni tattiche. E’ in un contesto del genere che si è imposto Alberto Asor Rosa, morto oggi a 89 anni.

 

“Scrittori e popolo”, il suo fortunato pamphlet del 1965, esaminava con brutale ostilità la “letteratura populista in Italia”, ovvero quella letteratura che dall’800 al secondo dopoguerra avrebbe accettato un cattivo compromesso sia sul piano della sperimentazione formale, addomesticata in nome di un malinteso realismo, sia sul piano dell’indagine sociale, edulcorata da un progressismo di buoni sentimenti. Se le condanne finali toccavano a Vittorini, Pratolini, Pasolini e Cassola, il bersaglio grosso restava il marxismo gramsciano egemone negli anni ’50, che Asor Rosa – come i suoi compagni operaisti – voleva abbattere a colpi di schematico cinismo, separando con un taglio netto la Razza Proletaria da una Cultura conservatrice per definizione, e anzi degna solo quando si mostrava tale, cioè incurante dei problemi etici o democratici.

 

L’ideologo romano semplificava così le idee di Fortini, facendo intendere che nell’enunciarle il maestro era stato troppo timido: dopotutto non credeva ancora, poveretto lui, nei “valori della poesia”? Se Fortini non somigliava a Bakunin, Asor lo ha certo ricattato alla maniera di Nečchaev. Tuttavia in “Scrittori e popolo”, e nel conseguente “La cultura” (1975), si trova comunque il meglio di questo studioso, la cui vocazione consisteva nel ridurre all’osso i modelli di pensiero altrui, trasformandoli in un’arma passepartout rozza ma non di rado affilata. Col riflusso degli anni ’80, la strenua volontà di rimanere al centro della scena lo ha invece convinto a imbarcarsi in imprese inadeguate al suo profilo, data la loro natura compromissoria: basti pensare agli incarichi nel Pci di Berlinguer, partito per eccellenza moralista e crepuscolare, o alla direzione della sincretistica “Letteratura italiana” Einaudi.

A fine secolo poi, sparito il Pci ed emarginata ormai la letteratura dal dibattito mediatico, Asor ha disperso le sue energie in una serie di volumi pretenziosi, generici e grevi, scoprendo l’ecologia solo quando ha visto insidiato il suo “particulare” domestico, e indulgendo addirittura a velleità francescane. Così lo spregiatore dei buoni sentimenti è diventato un narratore nostalgico, e il fustigatore delle terze forze ha esaltato l’opera di Scalfari, patrono del progressismo terzaforzista.

Il grande critico citato all’inizio, Cesare Garboli, accennava alla rivelazione del ’900 in un discorso sul Tartufo di Molière, a suo avviso reincarnatosi appunto negli ideologi postmoderni. Perfino per ragioni fisiche – i baffi e il naso rosso, maschera carnevalesca e minacciosa a un tempo – io ho spesso immaginato quel Tartufo come Asor Rosa. Ma se l’ipotesi ha una sua plausibilità, bisogna aggiungere che riuscire a impersonare per sessant’anni un tipo del genere (col suo trasformismo coatto, col suo misto italico di comicità e spietatezza) non è stata affatto un’impresa da poco.

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