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pagine di vita

Il secolo di Katherine Mansfield

Sandra Petrignani

Si chiudeva nel 1923 la breve parabola di una scrittrice triste ma avventurosa. Un'esistenza segnata dalla malattia e dai presagi di morte, eppure carica di emozioni preziosissime e libertà che tornano nei suoi racconti. E anche nel look è diventata un'icona del Novecento

Katherine Mansfield decise di dedicarsi alla scrittura a poco più di vent’anni, folgorata dalla lettura di Anton Cechov. E Cechov fu, per il breve “sempre” che ebbe in sorte, il grande maestro della sua vocazione, ma anche uno specchio in cui si rifletteva la vita. In una lettera al marito John Middleton Murry (nell’Epistolario, edito dal Saggiatore) si esprime così: “A proposito di Cechov, non dimenticare che è morto a 43 anni. Che ne ha passati – quanti nella sua esistenza? – nella ricerca disperata della salute… Negli ultimi anni non ha avuto pace… Non ci vuole molta fantasia a immaginarlo sul letto di morte che pensa: ‘Non ho mai avuto veramente fortuna. Qualcosa è stato del tutto sbagliato’”. Parla solo di Cechov, Katherine, o anche di se stessa? La lettera è del 15 ottobre 1922, lei morirà a 35 anni, il 9 gennaio dell’anno successivo. Un secolo fa, dunque, si chiudeva la parabola di un eccezionale talento che fece in tempo a esprimersi in poche poesie, una manciata di bellissimi Racconti (raccolti in due volumi da Adelphi) e in un carattere pieno di asprezze, in un’esistenza minata dalla tubercolosi e pure da una mancanza completa di freni. Lo scrittore russo è il compagno con cui, il 5 luglio del 1918, appena trentenne, si confida nel Diario (pubblicato da Dall’Oglio) in un presentimento di fine precoce: “Ahimé, Cechov; perché morire? Perché non posso più chiacchierare con te, a tarda sera, nella buia stanza dove la luce è verde per gli alberi che, fuori, dondolano? Vorrei scrivere una serie di cieli: sarebbe qualcosa”. Ma lei, malgrado il generale apprezzamento, si sente fallita. E allora, ancora una volta, si rivolge a Cechov, ne fa il suo maestro di scrittura e di vita, citandolo in continuazione nel diario, come in questo celebre passo: “Devi smetterla una volta per sempre di preoccuparti di successi e di fiaschi. Non lasciarti influenzare da questo pensiero. Il tuo dovere è quello di continuare a lavorare giorno per giorno con ritmo costante e con perfetta calma, di mettere in preventivo errori (inevitabili) e fallimenti, e di lasciare agli altri la cura di contare le chiamate alla ribalta”.

Katherine fa proprio l’insegnamento e lo segue fino alla fine. Gli ultimi racconti che porta a termine sono La mosca e Il canarino, pieni di morte. Uno è la storia di una donna che nel suo uccellino in gabbia – trovato stecchito con le zampine all’aria un mattino – riconosceva tutta la capacità di dare e ricevere amore nella sua solitaria esistenza; l’altro parla di una mosca, prima salvata da una caduta nel calamaio da un uomo depresso per la scomparsa del figlio in guerra, e poi distrutta da quello stesso uomo che, proprio mentre l’insetto si sta ripulendo felice di averla scampata, lo ricopre di altro inchiostro uccidendolo con fredda malvagità. “Ormai so che per me non esiste, sulla terra, nessuna cura. E’ tutta finzione” appunta Katherine nel diario. “Ho cessato di essere una scrittrice. Da quando ho finito La mosca ho scritto soltanto dei frammenti più o meno lunghi”.

Appena trentenne, si rivolge a Cechov nel suo diario: “Perché morire? Perché non posso più chiacchierare con te, a tarda sera?”

Aveva preferito la scrittura alla musica, arte per cui aveva dimostrato un talento precoce grazie all’insegnamento paterno, un banchiere musicista per hobby. Cugina della narratrice australiana Elizabeth von Arnim, più grande di lei di almeno un ventennio, Kass – come la chiamavano in famiglia – era nata a Wellington da genitori molto innamorati. Così innamorati l’uno dell’altra, che i figli, e Katherine in particolare, avevano avvertito la distanza soprattutto materna e avevano trovato l’affetto necessario soltanto nella persona di una nonna. I biografi fanno risalire a questa mancanza infantile il carattere spigoloso e spericolato che va maturando. A scuola gli insegnanti la classificano “malinconica e sgradevole”, una ribelle che non riesce “a essere nemmeno una discola simpatica”. Così a 14 anni ottiene di poter approfondire a Londra gli studi di violoncello. Torna in Nuova Zelanda due anni dopo, circondata da una fama di disubbidiente che non migliora, e presto smania per ripartire. Ma prima si aggiusta lo zaino in spalla e si mette on the road. Un’esperienza che racconta a se stessa in un carnet pieno di note che diventerà Viaggio in Urewera (a cura di Nadia Fusini, ristampato ora da Adelphi) e che si rivela fondativo, iniziatico, sia dal punto di vista letterario sia esistenziale. Parte con un gruppo di amici, in tenda, alla scoperta dei luoghi incontaminati del suo paese. L’Urewera è la costa orientale dell’Isola del Nord della Nuova Zelanda, zona incontaminata abitata dai Maori. E’ un affondo nelle radici per superarle, un’aspirazione realizzata alla libertà. Se vuole tornare in Europa e continuare a girovagare è perché ha imparato a sradicarle quelle radici, a staccarsi da un mondo in cui non si riconosce ma da cui ha appreso tutto: immagini, odori, parole, sensazioni, attenzione, rumori animali, luci, colori. Un bagaglio di emozioni preziosissime che torneranno nei suoi racconti. Fa una gran festa prima di partire, saluta i suoi primi flirt (fra cui figurano anche donne, perché una dimensione della sua libertà è l’apertura sessuale) e via, salpa. Armata dalla determinazione di diventare scrittrice e con la garanzia paterna di un minimo assegno annuale (cento sterline) che, con le sue prime pubblicazioni, dovrà bastare a sostenere materialmente la spinta vitale che la anima.

A Parigi sostiene di aver intravisto Marcel Proust in una sua rara uscita nelle vie della città; a Londra si sposa con il critico Middleton Murry, un matrimonio di reciproche infedeltà e altalenante complicità. Sembra che lui all’inizio fosse restìo, un po’ insospettito dai modi esageratamente estroversi di quella barbara venuta dal Nuovo Mondo. Kass effettivamente non era timida: “Perché non diventiamo amanti?” gli aveva chiesto a bruciapelo. E lui, dondolando la gamba appoggiata all’altro ginocchio: “Temo che si sciuperebbe tutto”. Allora lei rilanciando: “Ma io ti amo. Fa qualche differenza questo?”. Beh, sì, visto che a quel punto John era capitolato.

La trasformazione di una ragazza provinciale nella donna che ci seduce attraverso poche fotografie: sguardo intenso, pelle diafana, frangetta dritta 

Coincide con le nozze la trasformazione di quella primitiva ragazza provinciale e grassottella in un’icona moderna come è arrivata fino a noi seducendoci attraverso le poche fotografie: lo sguardo scuro molto intenso, l’ovale perfetto e la pelle diafana, la frangetta dritta sulle sopracciglia folte. Inoltre, siccome si ammala continuamente, Mansfield (che è un nome d’arte, il cognome vero fa Beauchamp) è calata parecchio di peso, e poi si è tagliata i capelli che ora sono corti alle orecchie e lisci, come presto diventeranno di moda; anche le gonne si accorciano e lasciano vedere belle gambe infilate in calze colorate, tacchi alti, giacche di velluto con bottoni dorati. Quasi sempre nei suoi vestiti prevale il nero. Si trucca molto, troppo secondo Virginia Woolf che ne resta sconcertata e la trova volgare, mentre suo marito Leonard la giudica “pungente”. Ma in realtà Katherine affascina uomini e donne e gli stessi Woolf, che ne pubblicano Preludio per la loro Hogarth Press nel 1918, non ne mettono mai in discussione il talento. Di quel volumetto Virginia, nel suo diario, scrisse: “Sono anch’io colpita da questo racconto; un po’ frivolo lo ammetto, intriso del suo realismo a buon mercato; ma ha in sé il vigore e l’essenza distaccata di un’opera d’arte”. Quando, per esempio, vi si legge una frase come questa: “Il coperchio sbatacchiava instancabile a tempo di giga” o quando Mansfield sembrava farsi un implacabile autoritratto: “Lo so che sono sciocca e vana e maligna: ho sempre recitato una parte. Non sono mai me stessa, nemmeno per un momento”.

Diceva di non sopportarla Virginia, ma poi a ogni incontro (pochissimi in verità) ne rimaneva incantata: “Trovo in Katherine quello che non trovo in altre donne intelligenti, un senso di intimità e di interesse che ha origine, penso, dalla sua passione così genuina, eppure così diversa dalla mia, per la nostra preziosa arte”. E quando seppe della sua morte ne fu annichilita. Tutte e due non avevano amato nulla nella vita come il proprio scrivere e se ne facevano annientare, quasi fosse una punizione meritata. Eppure le radici di quella comune maniacalità stavano altrove, non nell’impresa letteraria. La stessa Woolf se ne dimostra fuggevolmente conscia quando scrive nel diario: “Ho avuto una volta di più la sensazione di una reciproca comprensione fra noi due, lo strano senso di essere ‘simili’, non soltanto per quanto riguarda la letteratura… Con lei riesco a parlare chiaro”. Quali verità si siano scambiate non lo sapremo mai. Sappiamo però che erano entrambe estremamente sensibili; che concepivano la letteratura come ordine da contrapporre al disordine della vita; che non ebbero figli per colpa delle loro malattie; che non trovarono grande felicità nell’amore, ma molta gioia invece nello scrivere, anche se fu una gioia condita di rabbia e delusione.

Aveva in sospetto lo snobismo del gruppo di Bloomsbury. Ma Virginia Woolf scrive: “Ho avuto la sensazione di una reciproca comprensione”

Mansfield aveva in sospetto lo snobismo del gruppo di Bloomsbury, forse influenzata dal suo grande amico (a fasi alterne) David H. Lawrence. Da parte loro i bloomsburiani, e anche quelli di una cerchia più allargata, rispondevano con sospetto. Lytton Strachey la trovava “brutta”, Aldous Huxley diceva: “Era una donna infelice, capace di interpretare innumerevoli ruoli, ma essenzialmente incerta su chi fosse veramente”. E David Garnett, che l’aveva amata: “Capivo che recitava, anche molto bene”. Per trovare un giudizio più positivo bisogna ascoltare un’artista, Dora Carrington, che con Katherine aveva diviso una casa nel 1916 e ne ammirava l’anticonformismo: “Era una donna straordinaria, spiritosa e coraggiosa, aveva molto dell’avventuriera e un linguaggio da pescivendola”. Decisamente una persona contraddittoria, minata dalla Tbc e forse incattivita dalla paura di dover morire giovane.

Aveva avuto la prima emorragia nel febbraio del 1918 e i medici l’avevano avvertita che non sarebbe sopravvissuta a lungo se non si fosse sottoposta a cure severe in sanatorio. Ma lei insisteva a curarsi a modo suo, sempre più sola e infelice. Abbandonata da tutti, tranne che da uno strano personaggio adorante, che in realtà la dominava, Ida Baxter, una specie di inseparabile dama di compagnia disposta ad accompagnarla in posti dal clima mite, nel sud della Francia, in Italia, nell’illusione bastasse il clima a risanarla. Ospedaletti, Sanremo. Senza mai smettere di scrivere i suoi meravigliosi racconti, sognando di essere un coccodrillo perché, come aveva detto a Virginia Woolf, “è l’unica creatura al mondo che non tossisce”. E lei invece non faceva altro. “La mia tosse è così peggiorata” scriveva a Murry “che ora io sono la tosse, una tosse vivente che cammina o sta sdraiata”. Come la Linda di Preludio anche lei sembrava “aspettasse qualcuno che non veniva, qualcosa che non accadeva”.

E poi l’ultima follia. Per disperazione, ingenuità, paura, delusione nella medicina incapace di guarirla. Si avvicina alla teosofia e si convince che attingendo ad alcune verità spirituali, la malattia possa magicamente sparire. Entra in contatto a Londra con il gruppo di Georges Ivanovic Gurdjieff, un filosofo sufi, fondatore di un movimento per il sincretismo religioso che va dal cristianesimo al buddhismo passando per i dervisci danzanti e che ha ottenuto un seguito enorme influenzando pure la New Age. Sono stati suoi seguaci fra i tanti altri due musicisti come Franco Battiato e Keith Jarrett. Poi Gurdjieff era nato nella zona del monte Ararat, alla frontiera persiano-turca con la Russia armena, e a Mosca aveva fondato l’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo. Mansfield, fin dalla scoperta di Cechov, nutriva un’ammirazione estrema per i russi. “La mia mente è come un romanzo russo” aveva detto una volta a una ragazza, amante della giovinezza. Così la trama della sua vita scombinata la porta a Fontainebleau, in un nuovo istituto aperto dal Maestro che chiede ai suoi discepoli fiducia cieca, obbedienza assoluta, e impone uno stile di vita durissimo, basato su vita spartana, pesante lavoro manuale e momenti ricreativi di danza al suono di tamburelli. Tutta la terapia per la tubercolosi consisteva in una piattaforma collocata nella stalla sopra le mucche, per inalarne fiati e calore.

La trama della vita e la malattia la portano a Gurdjieff, filosofo sufi, fondatore di un movimento sincretista che influenzerà la New Age

Quando finalmente Murry ebbe il permesso da Gurdjieff di raggiungerla, Katherine per dimostragli quanto si sentisse bene aveva fatto la scala verso la sua stanza quasi di corsa. E così era stata travolta da una tosse fortissima morendone poco dopo. Le ultime parole, appuntate sul diario, sono le frasi di cui cerca l’equivalente russo e ben rendono il disagio a cui aveva scelto di consegnarsi: “Ho freddo. Non c’è più fuoco. Perché non c’è più fuoco? Mi piacerebbe parlare russo con voi”. Murry, nominato dalla moglie erede dei suoi scritti, si adoperò a costruirne il mito, correggendo e santificando secondo i propri desideri o la propria personalissima visione, la complessa personalità della scrittrice. La sua testimonianza di quell’ultimo incontro suona così: “Arrivai nelle prime ore del pomeriggio del 9 gennaio 1923. Non ho mai visto né vedrò mai un essere più bello di lei, in quel giorno. Era come se la squisita perfezione che era sempre stata in lei, l’avesse completamente penetrata. Per usare le sue stesse parole, l’ultimo granello di ‘zavorra’, le ultime tracce di ‘degradazione terrena’, si erano staccate da lei per sempre. Ma per questa purificazione aveva perduto la vita”.

Oppure, come ha scritto Pietro Citati nel suo innamorato Vita breve di Katherine Mansfield (Rizzoli, 1980), la verità è un’altra: “Quando risolse di entrare all’Istituto, la Mansfield non aveva fiducia nemmeno in Gurdjieff: era disperata, e puntava tutta se stessa, tutto il passato, il presente e il futuro, ‘andando avanti arditamente e da sola’, sfidando qualsiasi rischio, su una carta ignota, l’unica che le fosse rimasta”.

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