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il libro

Microcosmo Adriatico. Il viaggio di Robert Kaplan tra le due sponde del mare superum

Manuel Orazi e Marco Vanucci

Dall’ascesa dei sovranismi alla fine dello stato nazionale. Da New York, lo scrittore va alla ricerca delle risposte ai mille interrogativi del nostro tempo e lo fa studiando le coste e i confini 

Fra i vari temi toccati alla presenza di un nutrito gruppo di giornalisti stranieri (piuttosto preoccupati), lo scorso agosto Giorgia Meloni aveva affrontato anche quello dell’Adriatico e dei suoi porti da potenziare aprendo così ufficialmente la campagna elettorale ad Ancona, città rossa, e non a Roma, Milano o Napoli. Dopotutto le Marche e l’Abruzzo sono state le prime due regioni governate da Fratelli d’Italia, due piccole regioni adriatiche. “Non mi stupisce – dice Robert D. Kaplan da New York – l’Adriatico da sempre è il portale verso oriente non solo per l’Italia ma per tutto il continente, è qui che si scontrano la religione cattolica e quella ortodossa, la prima e la seconda Roma (Bisanzio) ed è su questo versante non puramente italiano che si sono fondati i vecchi sogni imperialisti, dalla Serenissima a D’Annunzio. Il XXI secolo vede la geografia restringersi grazie al commercio globale, presto la Cina e l’Oceano indiano saranno molto più vicini di quanto si pensi e se l’Italia vuole avere un secolo di prosperità allora ha bisogno di porti adriatici piuttosto vivaci”.

 

Ancora prima della pandemia e della guerra in Ucraina, l’Adriatico stava tornando all’attenzione geopolitica internazionale per via del progetto cinese della nuova Via della seta. Segnali di questo nuovo corso, dopo decenni di depressione economica, sono stati l’acquisto della compagnia di Amburgo Hhla del terminal portuale di Trieste, l’indebitamento del Montenegro con la Cina per costruire un’autostrada interna e altre operazioni rimaste sottotraccia. La crisi energetica ha fatto il resto, sottolineando l’importanza dei gasdotti alternativi a quelli russi come la Tap e l’esistenza di decine di piattaforme marine in gran parte abbandonate. Dapprima il libro di Egidio Ivetic, “Storia dell’Adriatico” (il Mulino 2021) tradotto anche in inglese e la ristampa delle “Storie di Adriatico” del suo maestro Sergio Anselmi, ora questo di Kaplan, “Adriatico. Un incontro di civiltà” (Marsilio, € 22 euro) donano dignità geopolitica a questo piccolo mare che secondo Fernand Braudel e Predrag Matvejevicć condensa in se stesso tutti i temi e i problemi del Mediterraneo. L’analista americano però si spinge oltre. “Qui è distillata l’Europa, in una geografia chiara e comprensibile a tutti. È il globo in miniatura. In effetti, le sottili differenze tra le civiltà dell’Adriatico coinvolgono oggi il mondo intero. L’età del populismo di cui parlano i media è solo un epifenomeno, il canto del cigno dell’èra del nazionalismo. Di conseguenza, l’Adriatico costituisce l’elegia a una categoria di opposti che ho passato la vita a osservare”.

 

Contro ogni aspettativa è forse il suo testo più intimista, si percepisce molto cioè che nasce da un diario di viaggio, non fosse altro perché si dilunga sui suoi poeti preferiti, Ezra Pound e Iosif Brodskij – un americano e un russo, non a caso entrambi seppelliti a Venezia. “È senz’altro il mio libro più privato, non esaustivo perché ad esempio manca tutto il medio e basso Adriatico italiano, si basa su un’esperienza personale e sulle mie ossessioni letterarie e artistiche, non vuol essere completo, sono un generalista e non certo uno specialista”. Il professore presso il Foreign Policy Research Institute di Filadelfia, ex consulente del Pentagono e della Casa Bianca, figlio di un camionista, si schernisce. Il suo viaggio parte da Rimini, dal Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti e Piero della Francesca, pietra angolare del Rinascimento nonché luogo di sepoltura di Gemisto Pletone, ultimo grande filosofo bizantino cui si deve la riscoperta del neoplatonismo; Sigismondo – protagonista dei “Cantos malatestiani” – ne recupera le spoglie a Mistrà, vicino Sparta, per salvarle dagli ottomani e dunque dall’oblio. È un peccato che manchino le Marche dal libro e dunque l’archeologo Ciriaco d’Ancona, lo scultore Giorgio da Sebenico, l’architetto Luciano Laurana, il gesuita Matteo Ricci, noto ai cinesi come “Li Madou”, il missionario tibetologo Orazio da Pennabilli, l’indologo e buddhologo Giuseppe Tucci fondatore dell’Ismeo: per qualche ragione esistenziale da queste parti, come ha scritto Geminello Alvi, lo sguardo si volge a oriente o meglio a Levante, “perché qui l’aria è salata anche sugli interni colli, e non c’è bisogno di vedere le tamerici per sentir l’odore di quel nostro Adriatico tutto grigio, e sentore di splendide malinconie”.

 

Per Kaplan il mare superum, come lo chiamava Tito Livio, è soprattutto uno sfondo, un microcosmo in grado di illuminare il mondo intero per il ruolo preponderante che giocherà negli anni a venire. Inevitabile dunque che il viaggio continui verso Ravenna, “come Teodorico e Dante hanno plasmato l’occidente”, Venezia e infine Trieste dove Claudio Magris lo accoglie all’Antico Caffè San Marco, “un ambiente spazioso ma anche intimo… Ha un che dell’Austria-Ungheria e di Manhattan, ovvero di una civiltà complessa e compiuta, inquieta”. L’autore di “Microcosmi” e “Danubio”, gli spiega come l’identità italiana e quella slava siano più intrecciate di quanto sembri, ad esempio nell’identità sua e della moglie fiumana Marisa Madieri (nata Madjarić), scomparsa nel 1996, che da bambina parlava croato. Così Magris rilancia lo spettro di Joseph Roth del Busto dell’Imperatore, dove l’unico segno distintivo del “vero aristocratico” è porsi “al di sopra di ogni nazionalità”, nella tradizione degli Asburgo che però, a partire dal 700, vollero dominare l’Adriatico concedendo il porto franco a Trieste e costruendo le ferrovie verso Istria, Dalmazia, Ungheria, Ucraina, Galizia, ecc. regalando così l’ossatura infrastrutturale ai futuri stati nazionali novecenteschi.

 

Sebbene il libro sia diviso equamente fra le due sponde del mare superum, il passaggio verso i Balcani è un ritorno. Nel 1993 infatti Kaplan pubblicò uno dei suoi libri più venduti, “Gli spettri dei Balcani” (tradotto da Rizzoli nel 2000), che prendeva di petto, anticipandola, la guerra civile degli slavi del sud. “Oggi però la Croazia è cambiata in un modo incommensurabile, è una società completamente diversa da quella di trent’anni fa, conosco bene Rijeka… È una società mediterranea che ogni anno ospita quindici milioni di turisti. Poi ci sono il Montenegro, la Serbia e i problemi con il Kosovo e l’Albania che credo siano impossibili da risolvere se non sotto l’ombrello dell’Unione europea, che però in questo momento ha molte difficoltà a espandersi”. Già, l’Europa, per tutto il libro è difficile non pensare allo scetticismo di Kaplan verso la salute e soprattutto il futuro del Vecchio continente.

 

“L’Europa ha goduto di oltre mezzo secolo di un’età dell’oro, quando cioè dalla Guerra Fredda e poi per un altro quindicennio circa è rimasta al riparo dalle guerre e dal terrorismo internazionali, protetta dagli Usa, per cui ha potuto costruirsi un modello di welfare che è unico al mondo. Purtroppo oggi tutto sta cambiando, gli Usa sono meno affidabili, lacerati tra democratici e repubblicani – mai così distanti in politica estera come ora –, la Russia sarà sempre un problema anche dopo Putin, inoltre le dittature del Nordafrica e del medio oriente non ci sono più e i migranti sono liberi di risalire dal Sahara o dall’Eufrate verso l’Europa che io chiamo ‘Impero benevolo’ – la chiamo così perché comunque dalle decisioni di un ristretto numero di persone a Bruxelles dipendono le vite di stati come la Grecia o la Bulgaria – e credo che il suo futuro dipenda dalla sua capacità di espansione e dal risultato della guerra in Ucraina, che ovviamente è una storia a sé”. Kaplan è noto anche per la sua capacità di previsione, come nel caso di quella jugoslava o di quella ucraina, in questo libro dedicato a uno spazio esistenziale e paradossale – come può essere esistenziale un genius loci così multiculturale? – vede una via d’uscita possibile in un altro ritorno al passato.

 

In quasi tutti i continenti, nel frattempo, le città si trasformano in megalopoli e regioni-stato autonome, quindi anche qui si potrebbe avverare un mondo di tante città-stato transnazionali come lo fu un tempo Dubrovnik, tante mini-Singapore e mini-Dubai insomma, fedeli in sostanza agli affari e al commercio, invece che a un potere nazionale o a una filosofia politica. “In questo senso la Jugoslavia potrebbe tornare in una forma più soft, perché queste zone devono commerciare tra loro, non hanno alternativa”. Gli facciamo notare allora che il professor David Abulafia dell’Università di Cambridge, esperto di Mediterraneo medievale, è un grande ammiratore della snella burocrazia commerciale delle città della Lega anseatica che agevolava le relazioni politiche fra tutte le città-stato di quella Hansa, un modello che di recente ha contrapposto polemicamente all’Unione europea e al suo eccesso legislativo. “Credo che sia un ottimo esempio per ciò che l’Adriatico potrebbe diventare, una Hansa sudorientale che costituisca un arcipelago di città-stato commerciali in grado di contenere le pressioni di frontiera con ciò che una volta chiamavamo il Levante. Magnifici porti come Pirano, Spalato, Zara, Dubrovnik, Cattaro (Kotor), Durazzo che in passato sono già stati entità autonome quindi perché non di nuovo?”.

 

Un confine aperto quindi, pacifico perché basato sul commercio e non sull’ordine militare. Un’obiezione però sorge spontanea: come si concilia l’indebolimento degli stati nazionali con il risorgere dei nazionalismi in Italia, Polonia, Ungheria, Usa, Russia, Israele, India, Cina cioè dappertutto? “I nazionalismi sono forti, certo, ma non potranno mai più esserlo come negli anni 30, quando l’umanità non viaggiava, tutti erano radicati in un luogo e nessuno viaggiava in Africa o nel Golfo Persico. La globalizzazione è inarrestabile e il turismo, che è una delle sue tante forme, ha alterato oggi alcune città in parchi a tema mentre un tempo erano vive. Anche qui l’Adriatico offre l’esempio massimo planetario che è Venezia, meta del turismo più commerciale rappresentato bene da quei giganteschi frigoriferi galleggianti che sono le grandi navi, che forse ora andranno a finire a Trieste. Le destre nazionaliste in fondo hanno in comune solo la paura dei migranti e la conseguente azione di respingimento. Senza migranti le destre collasserebbero”.

 

Con l’attuale pressione migratoria dall’Africa e dal medio oriente però, il futuro delle destre resta luminoso anche se, spiega, la vecchia mappa romana del mare nostrum sta tornando perché il Maghreb e il resto del Nordafrica sono stati per secoli uniti all’Europa, parlando latino ancora secoli dopo la conquista islamica, come dimostra il regno siciliano-normanno d’Africa voluto da Ruggero II. In altre parole, la divisione con il Nordafrica si andrà attenuando e il baricentro europeo dall’asse franco-tedesco si dovrà spostare verso il Mediterraneo. Peraltro l’Adriatico per la sua bassa densità abitativa e la lontananza dai grandi centri è stato il terreno di sperimentazione per nuove tipologie architettoniche, da quelle premoderne come il lazzaretto dove effettuare la quarantena (inventato a Venezia nel XV secolo) a quelle postmoderne come le discoteche (inventate a Rimini negli anni 60) dove passare le notti nel tempo sospeso delle vacanze poi celebrate da Pier Vittorio Tondelli, Luigi Ghirri, dal cinema di serie B (ma anche da quello malinconico di Fellini, Antonioni, Zurlini) e dall’architettura balneare effimera e kitsch. Kaplan invece nota una mutazione urbana ben nota agli architetti, meno ai politologi: “Il mondo postmoderno spesso non è né urbano né rurale, ma negazione di entrambe queste realtà”.

 

Guardando fuori dal finestrino del treno tra Rimini e Ravenna, dove la costa è molto diversa da quella ligure o campana, la città non si ferma mai: in effetti la campagna entra in città e viceversa in una striscia continua di (non più) città, per usare la definizione di Rem Koolhaas. “L’aumento della popolazione da sette a undici miliardi entro la fine di questo secolo comporta un affollamento di persone ai margini delle città che crea degli ambienti urbani privi di qualità estetica, dunque senza nulla a che spartire con le città-museo europee, ovvero piene di monumenti, piazze e caffè. L’architettura moderna è stata impostata contro l’individuo, senza marciapiedi o spazi pedonali adeguati, almeno dagli anni Sessanta”. Questa no-stop city adriatica è più visibile sulla costa italiana che sulla sponda orientale, un po’ per ragioni topografiche, perché è più frastagliata, e un po’ per via del lungo regime comunista che ne ha rallentato lo sviluppo. Anche in questo l’Adriatico è più vicino alla Cina che alla Francia o all’Olanda, la città adriatica è una striscia densamente urbanizzata e popolata da imprese medio-piccole, il “modellaccio” studiato dall’Istao di Giorgio Fuà negli anni 70, che grazie ai suoi porti potrà, forse, rinascere.

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