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il trattato

Un giovane Flaubert che si prendeva gioco della sensibilità altrui

Marco Archetti

In questa narrazione della stupidità umana, il romanziere francese descrive con umorismo le emozioni umane più stereotipate: il pianto ai funerali, il riso ai matrimoni, la tristezza davanti alla luna, l'allegria in mezzo a una folla...

Un trattato involontario sulla stupidità umana. Niente da fare, era più forte di lui, Flaubert era Flaubert anche prima di essere Flaubert e odiava con tutto sé stesso le guide turistiche, gli ammiratori ignari della propria ammirazione e della natura di ciò che ammiravano (pur ammirandolo, oh, ammirandolo moltissimo), i quadri orrendi, i compagni di viaggio logorroici e le potature editoriali con alibi moralistico. Quando, a ventisei anni, il primo maggio del 1847, alle otto e mezza del mattino, insieme all’amico Maxime Du Camp lasciò Parigi per una gitarella in Bretagna e Normandia con l’obiettivo di “andare a respirare un poco di aria fresca tra l’erica e le ginestre, rinviati a un nebuloso avvenire i grandi viaggi per il mondo” facendosi pellegrino di medio raggio e turista di prossimità ante litteram (lo strano animale in cui, fino a un anno e mezzo fa, per lo meno a leggere i catastrofisti del Covid-che-non-ci-restituirà-più-a-noi-stessi-come-prima, ci saremmo dovuti trasformare tutti, perché il tempo sospeso ci aveva fatto riscoprire i valori veri della vita, segue elenco), dotato di zaino in spalla, scarpe chiodate ai piedi e bastone in mano, per nostra fortuna, in quello zaino, Flaubert portò anche il futuro Flaubert: quello di Bouvard e Pécuchet.

 

Lo si trova tutto, croccante, vivissimo e dispiegato come un aquilone in cielo, tra le pagine di “Attraverso i campi e lungo i greti”: diario en plein air a quattro mani, resoconto di viaggio in cui il viaggio è solo un pretesto per parlare di tutto, dalla storia dell’arte all’architettura, dall’umanità alla filosofia, è un testo scritto quasi danzando, con l’anima in fremito, la camicia gonfia di vento, la vita interiore già a tavoletta. Offre una messe di dettagli vispissimi, recensioni di locande comprese, e ritratti memorabili uno via l’altro, contrattempi che diventano gag, memorabili sintesi antituristiche e fede tutta flaubertiana nel catalogo.

 

“Roscoff: terreni nudi, piatti, legumi legumi legumi. Quiberon: il suo passato si riassume in un massacro. Logeot: odio per le medaglie commemorative. Da Saint-Nazar a Pornichet: biancosipini e ginestre, sentieri tra le siepi, una donna che riempie gli interstizi dei muri con sterco di vacca. Fino a Croisic, nient’altro che pianure sabbiose”. 
E poi domande. “L’influsso esercitato dai luoghi sui libri e dai libri sui luoghi somiglia al problema dell’uovo e della gallina”, scrive Flaubert. “Sono stati i libri di Balzac a farmi pensare a quel che succede nelle vie di Blois o è quello che succede che ha dato origine a dei libri? È stato Dio o è stato l’uomo a disporre le cose come le vediamo?”.

 

Le cose che vediamo e le cose che ci raccontiamo: accade a Clisson, nel parco della Garenne, presso la grotta di Eloisa. “Ciò che noi proviamo in questi luoghi”, recita allo scrittore in visita il garrulo signor Richer, autore di una guida turistica sulla Loira inferiore, “Eloisa l’ha provato, l’ha sentito, l’ha ammirato e l’ha provato come noi”. Ma Flaubert si ribella e confessa: “Io ho provato ben poco, ho ammirato solo gli alberi e ho dedotto che la grotta sarebbe assai adatta per farci colazione, d’estate, in compagnia di amici e di alcune Eloise, con la possibilità che offre di tenere in fresco le bottiglie”. E prosegue invidiando quella gente tanto fortunata e fornita di doti eccezionali che pure esiste, ed è sempre all’altezza delle circostanze, piange ai funerali, ride ai matrimoni, sprofonda sempre nei ricordi davanti a muriccioli in frantumi, triste se guarda la luna e allegra se contempla la folla, gente cui la vista del mare suscita pensieri profondi e che, contemplando un bosco, si sente elevare a Dio.

 

“O creature sensibili, o romantici imbecilli!” li apostrofa prendendoli per il bavero. E a chi, similmente, cade in trance davanti a quadri orrendi, chiede: “Ma cosa c’è nel cuore umano perché incessantemente si precipiti su tutto e si aggrappi col medesimo ardore al bello e al brutto?”. Ottima domanda. Oggi la chiamiamo sensibilità.

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