Una fogliata di libri

Lo scrittore lasci perdere le sue fisime. Firmato Flaubert

Marco Archetti

Nelle sue lettere all'amante l'autore francese ci insegna che per scrivere bisogna morire a tutto il resto, abbandonando le passioni personali e puntando all'universale

Come si diceva una volta, carta, penna e calamaio, presto! E si trascriva, parola per parola, in tema di letteratura, la grande lezione di Sua Maestà Gustave Flaubert, il quale forse non brillava per ironia (men che meno quando bacchettava Maupassant e gli ribadiva che per scrivere bisognava sudare sui fogli sine die, ben sapendo che l’allievo era disposto a grandi dedizioni più che altro per le prostitute che frequentavano il circolo di canottaggio), però nel frattempo oltre a predicare razzolava che era un piacere, e scriveva capolavori, e quando la maggior parte della gente soffiava sul moccolo calzando il berretto e indossando la vestaglia da notte, lui sperperava ancora un po’ del suo genio e scriveva all’amante Louise Colet, disseminando perle e pagine che dovrebbero costituire la Bibbia per chiunque voglia scrivere, o già scriva, o comunque abbia voglia di considerare per davvero – cioè, appunto, sul serio – cosa significhi un romanzo.

   

Per i tipi di SE uscì qualche tempo fa una raccolta intitolata “Lettere d’amore a Louise Colet”, che riporta le lettere tra Flaubert e la sua innamorata divise in due epoche: nella prima, quelle tra il 1846 e il 1848, nella seconda, quelle tra il 1851 e il 1855. Quest’ultime, più fitte di argomenti letterari, sono più interessanti in questa sede, ma, attenzione, non in assoluto (insomma, procuratevelo, date retta; peraltro l’autoritratto che la Colet fa di se stessa nelle pagine del proprio diario ci consegnano l’immagine di una donna molto bella, seno e collo di grande impatto, e boccoluta, e dotata di una fiducia in se stessa a dir poco esemplare – qui ci si è innamorati alla terza lettera). La citazione flaubertiana che ora prendiamo in considerazione è in realtà tratta da un romanzo, uscito per Einaudi nel 2015 (ma è del 1974), di Philip Roth, “La mia vita di uomo”, una storia che affronta, tra le molteplici questioni, anche quella della scrittura in relazione alla rielaborazione dell’esperienza, e che a sua volta regala perle del tipo: “La letteratura fa a persone diverse cose diverse, un po’ come il matrimonio”. Il passaggio, riferito da Roth, recita: “Flaubert, alla sua amante Louise Colet che aveva pubblicato una poesia denigratoria sul loro contemporaneo Alfred de Musset, scrisse: Tu hai scritto con un’emozione personale che ha distorto la tua prospettiva e ti ha reso impossibile mantenere davanti agli occhi i princìpi fondamentali cui ogni esercizio di immaginazione deve sottostare. La tua poesia non ha estetica. Hai trasformato l’arte in uno sfogo per la passione, una sorta di pitale per accogliere un’inondazione. Puzza: puzza di odio”. Insomma, ancora una volta, pur col consueto drammatico puntiglio, Flaubert lo ribadisce: l’arte è una cosa seria, non un passatempo, men che meno pitale. E per scrivere – per essere scrittori – è necessario essere morti a tutto il resto, comprese le inondazioni generate dalle passioni personali. E’ un ammonimento sacrosanto, l’alfa e l’omega per chiunque si proponga di concepire quella complessa macchina aerostatica che è un romanzo, labirinto dell’immaginazione prima ancora di qualsiasi altra cosa, sfogatoio biliare meno ancora di qualsiasi altra cosa. Purtroppo capita di leggere cattiva prosa avvelenata da risentimenti personali, prosa che ha certamente aiutato l’autore a rielaborare un trauma intimo e che, chissà per quale ragione, un editore è stato disposto a pubblicare (anzi, si capisce: è in crescita il tipo di lettore che cerca non letteratura ma rime baciate, tetta materna, blandizie). In altre parole, capita di veder confezionato a libro molto materiale di risulta che ancora risente dei miasmi dei travagli personali e del caotico cantiere dei propri conti aperti, roba che Flaubert non si sarebbe sognato di lasciar intravedere nemmeno nelle lettere per Louise Colet, che pure erano materia non concepita per la pubblicazione (ah, l’inevitabile rapporto ambivalente che si ha con gli epistolari; ma anche questi sono utilissimi in tema di scrittura in relazione all’elaborazione dell’esperienza). 

   

Flaubert ci ricorda che non ci sono alternative: la letteratura non è un luogo in cui si scorazza al guinzaglio delle fisime derivanti dal cattivo rapporto con nostra madre, semmai è mettere il guinzaglio a ogni fisima e tirar fuori dal cilindro un coniglio narrativo che vale (e ha saltellato in) ogni altrove possibile. O lo scrittore è capace di questo balzo verso l’universale, o il suo romanzo volerà come vola, al massimo, un tacchino – “gallinaceo snello e con zampe piuttosto lunghe”, garantisce Wikipedia, ma ali molto corte. 

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