Gustave Flaubert fotografato da Nadar (Wikimedia Commons) 

Flaubert in Oriente, tra sfingi e bordelli egiziani

Giulio Silvano

Lettere alla madre e racconti del suo viaggio libertino, iniziato nel 1849 per lasciarsi andare alle atmosfere e voler vedere tutto

Non è facile immaginarsi certi scrittori prima dei trent’anni, soprattutto se nelle poche fotografie o caricature che abbiamo hanno il panciotto, i baffoni da tricheco e un’ormai definitiva calvizie. Qui, Gustave Flaubert, quando parte per l’Egitto, dobbiamo figurarcelo sul ponte della nave, “basco sulle ventitré, sigaro in bocca”, avvolto in un mantello “come Child Harold”. A ventisette anni parte per un viaggio verso l’oriente, e sono forse proprio le letture giovanili byroniane infuse di romantico esotismo a spingerlo ad allontanarsi dalla Francia e vedere le terre voluttuose del Levante.

 

Dalla nave Flaubert scorge l’oriente immerso “in una gran luce d’argento diffusa sul mare”. Scrive con fierezza alla madre di non aver avuto nausea durante la traversata – a differenza del suo compagno di viaggio Maxime Du Camp – e di aver vomitato solo un bicchiere di rum che aveva buttato giù per farsi coraggio. Ogni missiva, scritta mentre la luna brilla sui minareti, è straripante di affetto, sogna la madre al suo fianco per poter condividere con lei la vista delle dune, la rassicura costantemente, la immagina sola “a Nogent, davanti al fuoco, tutta triste, il mento sulla mano” mentre contempla i tizzoni, in attesa del momento in cui si potranno riabbracciare. Possiamo finalmente leggere questo intimo epistolario nell’edizione più completa mai apparsa in italiano grazie a Humboldt Books, con dei disegni di Nathalie du Pasquier, la traduzione di E. Baggi Regard e una saggia prefazione del neo-Strega Emanuele Trevi. 

 

Il viaggio dello scrittore, iniziato nel 1849, non nasce da un vero motivo, se non lasciarsi andare alle atmosfere e voler vedere tutto: i bagni di Cleopatra, le tombe dei Califfi, Tebe, il colosso di Memnone, i bazar, le Piramidi, il tempio di Eliopoli, i saltimbanchi, i beduini, comportandosi a volte come un turista qualsiasi, tanto da comprare un fez. Ma quelle tanto attese rovine da poema romantico non lo emozionano poi così tanto, “ci sarebbero da scrivere quindici pagine” per raccontare della Sfinge, dice, ma poi non lo fa. A posteriori gli lasciano addosso un po’ di “ennui”, di “lassitude”. Ciò che invece lo anima sono i piaceri tra le lenzuola dei bordelli. Donne di cui “non si vede nulla del viso” ma tutto del petto, “carne soda come il bronzo”, “occhi di stagno che rotano”. Conosce famose cortigiane dalle “magnifiche ginocchia”, prostitute in capanne costruite col limo del Nilo, o danzatrici vestite di broccati d’oro su stuoie buttate a terra vicino a una covata di gatti.

 

“Qui se ne intendono di contrasti, delle cose splendide brillano nella polvere”, scrive. Senza impelagarci nel dilemma delle colpe patriarcal-colonialiste, da queste lettere esce fuori un lato a volte non associato alla figura dell’illustre scrittore di cui vediamo il busto, imperante, istituzionale, ai Jardin du Luxembourg, cioè quello del libertino sessuale, senza drammi casanoviani e senza vergogne novecentesche. E perché questo ci sorprende? Dopotutto morì per complicazioni di sifilide e altre malattie sessualmente trasmissibili. “Madame Bovary” fu accusato di oscenità. Ci lascia a bocca aperta il candore – l’impeccabile precisione romanzesca! – con cui scrive, come se i diktat morali del secondo impero non lo sfiorassero.

 

E oggi, che gli imperi son mutati verso un apparente licenziosità, chi, in una lettera (o in un messaggio su WhatsApp), sarebbe in grado di scrivere anche al suo più caro degli amici, con simpatia e senza vanto: “A Esneh in un giorno mi son fatto 5 scopate e 3 pompini. Lo dico senza ambagia né circonlocuzioni. E aggiungo che mi ha fatto piacere”?

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