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Dialogo

I segni del grande scrittore. Azar Nafisi e la riscoperta della contraddizione

Edoardo Rialti

Il compito della cultura e dell’arte negli anni dell’attivismo social, dello scontro sulla cancel culture e della contrapposizione tra la globalizzazione e i nazionalismi messianici

Fanatici della quinta ruota,
pericolosi cavalieri lunari,
i capelli verdi a ostruire gli occhi
per non vedere dove sono diretti.

Nina Cassian, Poeti

 

Come in una canzone d’amor de lonh dei trovatori, come in una fiaba orientale, ho conosciuto Azar Nafisi per la prima volta nelle parole di ammirazione di un altro uomo. Christopher Hitchens, giornalista e polemista, giocando al Questionario Proust di Vanity Fair, alla domanda sulle proprie eroine nella vita reale rispose “le donne dell’Afghanistan, dell’Iraq e dell’Iran che rischiano la vita e la loro bellezza per sfidare l’oscenità della teocrazia. Ayan Hirsi Ali e Azar Nafisi come loro ideale modello femminile”. Lo dissi alla stessa Nafisi, quando la incontrai per intervistarla per il Foglio, a Roma. Sono passati anni da quel dialogo nel periodo di Obama, della crisi economica, dell’Isis: ci sono stati l’ascesa dei populismi, il trionfo e la caduta di Trump, la pandemia. Molte delle fratture che si sono progressivamente spalancate sotto di noi si schiudevano già allora come crepe in quella conversazione sulle minacce all’arte e al libero pensiero, anche e soprattutto nell’occidente dove lei stessa aveva dolorosamente deciso di trasferirsi.

 

L’autrice già celebre in tutto il mondo per Leggere Lolita a Teheran, memoir della sua battaglia per la letteratura e la libertà sotto il regime iraniano, avrebbe denunciato ne La repubblica dell’immaginazione l’avvizzirsi del sistema educativo americano, un monito ulteriormente approfondito dai recenti e splendidi Read Dangerously e Quell’altro mondo, appena pubblicato da Adelphi, nel quale la scrittrice torna all’amato Nabokov, modello di vita e poetica, altro esule che ha scritto magistralmente in una lingua non sua e che in tutte le sue opere ha incarnato – nelle parole della stessa Nafisi – “variazioni sui mali del solipsismo”. L’Oscar Wilde russo che sedusse Kubrick parrebbe così estraneo e remoto dalle crisi delle democrazie, dai conflitti militari in Ucraina, dai dibattiti su aborto e diritti civili, eppure è proprio lui che per Nafisi ha costituito una risorsa costante di respiro, sia quando lottava ancora in Iran – “non avevamo bisogno di sentirci dire che il regime era cattivo e noi buoni, né che avevamo ragione ed eravamo perfetti: ci serviva andare oltre, respingere la realtà imposta, e per farlo dovevamo guardare quella realtà in un modo nuovo” – che oggi a Washington: “C’è qualcosa di sbagliato in una società all’interno della quale si deve dimostrare l’importanza delle idee e dell’immaginazione”.

 

Nel proliferare di asfissianti autofiction che proiettano le proprie biografie sull’universo, sotto la pressante richiesta, alimentata dal mercato globale, di prodotti che carezzino e titillino ciò che già sappiamo di noi stessi, rimpinzandocene ancora e ancora, tornare alle voci della grande arte ci fa invece riesporre a chi ha voluto davvero sfidare il proprio lettore, “scuotendolo dall’autocompiacimento alimentato da trame prevedibili di opere minori, con personaggi stereotipati e un linguaggio moraleggiante che tentava di imporre “messaggi”, priorità politiche o morali – un insulto all’intelligenza del lettore e al suo desiderio di verità”. Ed è proprio alla luce di questo che dialoghiamo sul compito autentico della cultura e dell’arte negli anni dell’attivismo social, dello scontro sulla cosiddetta cancel culture, della contrapposizione tra la globalizzazione liberale e il rinnovato avvampare dei nazionalismi messianici. Prendiamo le mosse da una citazione di Camus: “I veri artisti non hanno mai un grande successo in politica, poiché non sono in grado di accettare alla leggera, io lo so bene, la morte dell’avversario! Stanno dalla parte della vita, non della morte. Sono i testimoni della carne, non della legge. Per vocazione sono condannati a comprendere anche ciò che gli è nemico. Questo non significa affatto che non siano in grado di giudicare il bene e il male. Ma, anche nel peggior criminale, la capacità che hanno di vivere la vita altrui permette loro di riconoscere la costante giustificazione degli uomini che è il dolore”.

 

Nafisi ascolta e annuisce con un “Oh”, come per un lieve sussulto al petto. “Camus è un pensatore così umano. Non ti colpisce solo intellettualmente ma anche al cuore. E’ uno dei temi principali dei miei ultimi libri. La differenza tra fiction è politica è che nella fiction ognuno ha una sua voce. Per sua struttura la narrativa è democratica. Un cattivo autore è come un dittatore, vuole imporre la sua visione a tutti i personaggi e fare del proprio libro un messaggio. Un grande scrittore invece dà una voce a tutti i personaggi, persino i più malvagi. Ciò porta alla comprensione, non al giudizio, ed è questo che rende la fiction così pericolosa, perché essa è genuinamente democratica e una minaccia alla mentalità dittatoriale; è una ricerca della verità, e a quel punto non puoi più restare in silenzio, perché saresti colluso. Ecco perché i grandi scrittori possono essere testimoni ma non politici”. Le cito Walter Siti e il suo recente Contro l’Impegno, dove questi ammonisce che la narrativa “d’impegno civile” spesso non fa che ribadire ciò che già sappiamo come giusto e sottoscrivibile, scartando o rimuovendo le zone grigie e pulsanti dell’inconscio, rattrappendo così quella specifica e insostituibile modalità conoscitiva che è la letteratura stessa.

 

James Baldwin, uno degli autori che amo di più, parla del pericolo della morte del paradosso. Oggi vogliamo essere ‘comodi’, trovarci in spazi sicuri, le persone evitano dolore, non vogliono essere messe a disagio; invece l’arte è lì proprio per disturbare la pace, l’arte pone domande, non solo per mettere in discussione il mondo ma anzitutto noi stessi, lo specchio dell’arte ti fa confrontare con aspetti di te stesso che non ti piacciono affatto, e ciò che accade specialmente adesso è che cerchiamo di distruggere tutto questo. Leggiamo e scriviamo solo su noi stessi, ed è così noioso. Noioso! Affermiamo tanto di voler essere inclusivi, ma non lo siamo affatto, vogliamo solo sentirci dire solo ciò che già sappiamo. In letteratura non sai mai prima cosa vuoi dire, qualcosa piuttosto ti turba, ti lascia insonne, e vuoi scoprire cos’è. Margaret Atwood disse che non sapeva davvero come scriveva un libro, ma che il processo era come se ci fossero voci da un villaggio lontano che la chiamavano, o come incappare in una pala insanguinata nel salotto. Scrivere è una investigazione, un processo, e sono così frustrata invece da ciò che vedo”.

 

E’ la grande intuizione già di Edipo in Sofocle, dove il giudice investigatore alla caccia del reo e del mostro si trova alla fine davanti a uno specchio. E’ la provocazione di Nabokov in Lolita, dove il pedofilo seduttore sfodera tutta la magniloquenza dei poeti medievali dell’amor cortese, e ciò mostra al tempo stesso come ogni parola luminosa possa farsi retorica e manipolazione, ma anche come persino nel più disgustoso dei reprobi si annidi un sogno di luce e amore. “Nabokov affermava di disprezzare la politica, ma ciò che scriveva è profondamente critico della società. Talvolta egli contrappone la mentalità dello scrittore e di un tiranno e osserva come si scontrano, ma il suo contributo resta sempre esporre e rivelare la mentalità totalitaria, anche in Lolita o Pnin. L’imposizione del tuo sogno sulla vita di qualcun altro.

 

Uno stupro è un’intrusione, un’invasione nel corpo e nella mente di qualcuno, sottraendogli come era destinato a vivere. I mostri non ci si presentano come tali, sono come noi, sono capaci di amore, sono umani, ed è così facile diventare mostri. I veri mostri vengono da noi come preti, uomini di Dio, star dei reality. E poi Nabokov si rivolge al lettore, e fa del lettore un membro della propria giuria invisibile. Devi ascoltare tutte le voci, tutte, e giungere alla tua conclusione”. Nei discorsi dell’ideologo di Putin, Dugin, si contrappongono acqua e terra, la Nuova Roma dai valori immutabili, ispirati da Dio e la Cartagine occidentale, il mondo fluido dell’indifferenza sessuale, del mercato che annulla tutte le specificità identitarie. Già Thomas Mann ne La Montagna Incantata aveva incarnato questi due poli in Settembrini e Naphta, l’illuminista massone e il gesuita irrazionalista, i loro nodi centrali, al tempo stesso affascinanti e parimenti limitati. Anche questo è legato alla vexata quaestio della cancel cutlure, giacché in parte consistente essa costituisce l’ennesima mitologia delle culture reazionare, che hanno bisogno di sentirsi assediate come i cristiani nelle catacombe mentre stravincono in così tanti paesi del mondo, perché tutti amano credersi la Resistenza di Star Wars e mai l’Impero, ma è anche innegabile come in tanto progressismo si annidi un puritanesimo altrettanto feroce dei vecchi regimi inquisitoriali.

 

“Mann scrisse in un periodo di crisi, molto simile al nostro, quando le nostre vecchie definizioni non funzionavano più, la realtà le negava. Gli artisti parlano di cose molto particolari, ma in ciò immettono cose universali, che superano tempo e spazio. Ecco perché Mann o Eschilo possono rivelarsi decisivi per l’oggi. E oggi siamo appunto in un periodo di transizione, possiamo andare in due direzioni. Possiamo fronteggiare le nostre contraddizioni e correggerci oppure no, tutti parlano di democrazia ma quando si tratta di implementarla tutti diventano autocrati, ecco dove sta il pericolo. In America, entrambe le fazioni credono di richiamarsi e attenersi alla Costituzione, per esempio. Ecco perché gli estremismi trionfano. La nostra vera speranza sta in paesi come l’Iran dove si combatte davvero per la democrazia, dove scrittori e lettori lottano assieme e sono torturati e giustiziati per una realtà che non accettano. Dobbiamo tornare alle grandi opere, e sfortunatamente destra e sinistra non lo stanno facendo. La crisi non è economica o politica, è una crisi di visione. La letteratura non ti aiuta a stendere programmi politici, ma ad avere una prospettiva mentale indipendente”.

 

Nel dibattito sulle culture identitarie è così facile far coincidere la propria esistenza con la propria biografia, mentre la nostra esistenza è assai più vasta, oscura, profonda. L’arte è proprio questo processo di uscita, trasferimento. Ci sono gli Scribi letteralisti di Tolkien che sui social ululano contro “l’elfo nero” nella nuova serie Amazon, e al tempo stesso gli studenti dei college che si rifiutano di studiare l’Otello di Zeffirelli perché l’attore principale era un bianco dalla faccia dipinta. “E’ esattamente il punto centrale, l’alterità è una parola tanto usata e così abusata. Gli attori diventano appunto qualcun altro. Ho avuto questa esperienza col film da Leggere Lolita… lo volevo più cosmopolita che potevo, non desideravo solo attori iraniani, e mi dissero che stavo scegliendo il direttore sbagliato perché israeliano (un progressista che crede nei due stati ed è contrario l’occupazione, tra l’altro), ma io lo volevo per l’umanità dei suoi film. Non desideravo un film che fosse semplicemente di propaganda contro il regime, e gli ho detto di scegliere attori che fossero di tutto il mondo, non solo locali.  E se spesso queste proteste identitarie sono fatte per le minoranze, in realtà le indeboliscono, la letteratura e l’arte vanno oltre tutti i confini”.

 

Come notava con un gioco di parole lo scrittore Wu Ming 4, “nell’èra dei social i testimonial si credono dei martiri”. C’è una sorta di crudele, sfacciata ironia: il nuovo millennio si è aperto con la grande contestazione no global e testi come No Logo di Naomi Klein e oggi tanti autoproclamatosi eredi di quelle battaglie postano foto dove ringraziano qualche marchio di moda per l’abito regalato per recarsi a un evento di gala dove parlare di diritti e diseguaglianze. Quanto poi all’uscire dai confini ghettizzanti dell’identità, se c’è una dimostrazione che, a un certo livello, siamo tutti transessuali, è proprio nella frase di Flaubert Madame Bovary c’est moi. “Tanto di ciò che ci circonda una farsa. Ho la sensazione che viviamo in uno stato di irrealtà, come quando mi trovavo sotto il regime, in Iran. Cercavamo sempre di evadere la realtà, e adeso lo vedo anche qui. Preferiamo evitare la realtà anziché affrontarla, viverla. E’ bellissimo invece quanto dicevi su Madame Bovary, potremmo usarla come metafora per tutta la fiction, riflettendo la definizione stessa di trans, l’altro in te”.

 

Le cito anche la grande scena in Guerra e Pace, dove il principe Andrei si commuove nel trovarsi accanto nell’ospedale da campo l’odiato Kuragin che gli aveva sedotto l’amata e che adesso strilla come un maiale per le ferite. “In Reading Dangerously sostengo ci sono molti modi in cui il nemico può distruggerti: in Iran c’era l’assoluta violenza, ma il tuo cuore non era unito al male che ti veniva inflitto, un altro modo invece è quando tu diventi come il tuo nemico, e usi le sue stesse tattiche. Lo sorpresi in me stessa, in Iran. Mi dicevo ‘li voglio tutti morti’ e poi ho capito quanto la mia mente fosse occupata dal mio nemico, e ciò mi portava via da ciò che amavo davvero. Baldwin sosteneva che l’odio è una coperta per il coprire il dolore, e oggi dobbiamo ricordarcelo e non disumanizzare il nemico, l’altro, cosa che invece accade tutti i giorni, tutto il tempo”.

 

Sia l’indifferenza generale della società sia certe accuse mosse da chi si definisce impegnato verso i “radical chic” che denunciano i rischi sulla libertà espressiva dell’arte, sottendono l’antico pregiudizio che l’arte pura e la sua difesa siano una fuga dalla realtà, e non una fuga nella realtà. Oscar Wilde, che definiva l’autentica mentalità intellettuale come la “capacità di giocare graziosamente con le idee”, è probabilmente uno degli scrittori più politici degli ultimi due secoli, perché ha ribadito ancora e ancora, nella vita e nella scrittura, che l’estetica è la vera madre dell’etica. “Specialmente in America molti pensano che l’arte sia inutile. Hanno una visione non pragmatica, ma utilitaristica, come se fosse solo intrattenimento. Non c’è niente di male nell’intrattenimento ma non è questo il punto. Letteratura è fondata anzitutto sulla curiosità- ossia sull’insubordinazione nella sua forma più pura, come diceva sempre Nabokov: esci dalla tua pelle e ti infili nella pelle altrui, scopri il mondo non come vorresti che fosse ma per come effettivamente è, e la curiosità poi porta all’empatia, al connettersi. Senza arte come potremmo connetterci ad altri? Noi non possiamo sperimentare tutto il mondo, ma con l’arte invece possiamo.

 

Leggi Euripide e ti trovi legato a lui, e questo legame è decisivo nella nostra esperienza quotidiana, se vogliamo sopravvivere. E tale connessione non conosce limiti, ti connetti ai tuoi amici così come ai tuoi nemici. Questo non vuol dire diventare loro complici, anche se vuoi distruggerli ciò resta essenziale. Anche se si tratta di Hitler e vuoi sconfiggere quella mentalità, devi capirla, conoscerla. Un grande scrittore è come un grande generale, cerca di intuire le mosse, come ragiona l’avversario. Ed è per questo che nei college universitari si dovrebbe leggere tutto, tutto, e invece essi stanno diventando esattamente l’opposto”. E’ il fiume carsico della mentalità puritana, che cambia casacca ma resta sempre uguale, e abbisogna di vittime immacolate, modelli perfetti che si fanno carnefici, e al tempo stesso di colpevoli senza redenzione, untori, stregoni. La più sacrostanta delle battaglie civili diventa così l’ennesima narrazione apocalittica, le nuove generazioni vengono idolatrate come profetiche e si affida loro un repulisti nel quale invece si annidano le ambiguità e collusioni di sempre.

 

Le battute del dramma Il Crogiuolo di Arthur Miller, ambientato durante la caccia alle streghe scatenata da alcune ragazzine nell’America di Salem, alludendo al maccartismo, paiono scritte oggi: “Sono santi solo gli accusatori adesso? Sono nati puri stamattina come le dita di Dio? Volete sapere cosa si sta scatenando a Salem?… si sta scatenando la vendetta, a Salem. Siamo quelli che siamo sempre stati, ma ora delle bambine impazzite tengono le chiavi del regno, e la più bassa volgare vendetta detta la legge”. Come per Camus, Nafisi si limita ad annuire. “Meraviglioso. Non puoi aggiungerci niente”, dice. Avendolo entrambi amato profondamente, non posso non domandarle se le manchi il già citato Christopher Hitchens. “Mi manca così tanto. E’ una cosa persino fisica. Washington sarebbe così diversa se lui fosse vivo. Quando penso alla sua morte, la annovero sempre tra le ingiustizie della vita. Lui era un bastian contrario nel vero senso della parola, aveva il coraggio di pensare indipendente anche quando si sbagliava. Io ero contraria a quanto sostenne sull’Iraq, ma lo rispettavo anche in quell’ambito, mentre non rispettavo alcuni che magari la pensavano come me”.

 

Abbiamo citato tante fonti di inquietudine, timore, frustrazione. C’è però una immagine, tratta da un’opera che le è cara, cui Nafisi torna dentro di sé, come per attingere a una segreta sorgente di riposo? “Penso a una poesia di Afez, una che spicca anche nella sua opera complessiva, perché non puoi interpretarla, la senti più che saper spiegare cosa significa, emerge come un paesaggio. La leggo e rileggo, e sento ciò che Nabokov definiva il brivido lungo la schiena. Abbiamo parlato di nemici, e pensavo anche alla cornice narrativa de Le Mille e una Notte. C’è un re che è impazzito, la sua sposa lo ha tradito, e allora ogni notte egli sposa una vergine e la uccide al mattino. Cosa fai con chi è uscito di testa in questo modo? Le vergini potrebbero assassinarlo, certo, ma non risolverebbero il problema. Ecco che arriva Sherazad e lei invece cerca di umanizzare il re, raccontando storie ogni notte, storie che lo incuriosiscono. Se sei incuriosito dalle persone non ti limiti ad ammazzarle, ed ella gli fa scoprire che non tutti i re sono buoni, non tutte le regine sono infedeli, e anziché ucciderlo lo guarisce. È una buona metafora di ciò che sono tutte le storie. Non si tratta di uccidere, si tratta di guarire”.

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