Freak Antoni (foto LaPresse)

Freak Antoni, un'artista oltre la categoria del banale

Ugo Nespolo

L'artista e leader degli Skiantos, come Gianni Celati, ha trasformato il palco e la sua Bologna in un modello d’avanguardia tra malinconia e arte

“Amo i solitari, i diversi, quelli che non incontri mai. Quelli persi, andati, spiritati, fottuti. Quelli con l’anima in fiamme”
Charles Bukowski

 

Sono certo. Si deve sapere qualcosa di più o molto di più di quel vasto universo avvolto dalle nebbie scure della dimenticanza, quello popolato di opere e personaggi sepolti per essere presto scordati, cancellati o relegati in ambiti tanto secondari fatti di scarsa convenienza, fraintendimenti, leggerezze critiche, autonomie lontane dagli obblighi dei sistemi culturali e politici imperanti. Entusiasmante e malinconico spingersi nel territorio di quelli che hanno perso la partita ma non la propria intelligenza e la propria forza, quelli che han vissuto e vivono la coscienza della loro marginalità, la bellezza del non riconoscere le gerarchie del fare e del fare arte e si consumano nel disperato tentativo di mettere in atto una rivolta che non fa sistema, una piccola filosofia individuale fatta di anarchia e sovversione privata.

Siamo già nel pianeta stralunato, nel territorio ideale in cui si agita malinconico e iperdinamico Roberto Freak Antoni, l’uomo che il bel saggio di Daniela Amenta “Freak Out - Psicofisiologia di un genio” tratteggia con segni marcati e dolcezze infinite. Artista totale “oltre le categorie del banale” che si esprime in un infinito rosario di attitudini. Scrittore, comico, ri-animatore, attore, musicista, cantante, critico, letterato e poeta. Anticipatore assoluto di quei Luther Blissett apparsi a Bologna sul finire degli anni Novanta nel tentativo tardo situazionista di dar vita ancora a derive psicogeografiche di vago gusto debordiano, Freak Antoni dichiara leggero e ironico di amare “decisamente più la motocicletta dell’automobile, più il mare della montagna, più l’estate dell’inverno, più il sesso dell’astinenza, più il frigo del forno e, gelosissimo delle sue abitudini, lecca da solo i francobolli”.

 

Difficile definire appieno Freak Antoni, figlio del Dams, quel ribollente pentolone che cucinava arti, musica, spettacolo, dove nomi altisonanti lumeggiavano un fantasioso mondo fatto di ricerche estetiche e di approcci d’avanguardia fra letteratura, musica, pittura e gesti affini, senza forse raccontare mai, con il dovuto coraggio, del doppio fondo del sistema dell’arte, delle sue prassi meschine, della solitudine e la durezza di carriere immaginate trionfali ma quasi sempre svanite all’alba del nascere.

L’ansia che divora la raffinata violenza espressiva di Freak Antoni ha da subito provocatoriamente stretta relazione con la parola demenziale, termine che qui sta per definire un originale genere artistico che non avrà solo da fare con la genesi di quel rock demenziale di cui gli Skiantos saranno invenzione e bandiera, ma davvero una domestica contro-ideologia che abbraccia tutto ciò che può essere “assurdo e bizzarro insieme, non eroico, non retorico, non modaiolo, non istituzionale”, un vero genere artistico, “cocktail di pseudofuturismo, dada, goliardia, improvvisazione, animazione pirotecnica, poesia surreale”. Si pensa e si mette in atto qualcosa nutrito di “brutalità intellettuale, come uno sberleffo prolungato”.

Freak Antoni dice chiaramente che non si tratta di avanguardia (teme giustamente l’uso e l’abuso del termine) mostrando con lucidità d’avere inteso per tempo l’inutilità di manierati, quanto vuoti, testi critici poiché “non c’è arte e non c’è artista” e per scelta si tiene “estraneo dall’intellettualismo del kitsch più pretenzioso e raffinato”. Sceglie provocatoriamente il banale in una sorta più o meno cosciente di quel sentimento che già imperversa nei giochi warholiani e trionferà nel miliardario cinismo industriale di Jeff Koons.

Freak sa fino in fondo e subito di aver perso la partita, sa che la strada dell’eclettismo feroce porta dritto nel baratro dell’incomprensione, dell’oblio e del disdegno ma non può esimersi dal dichiarare: “Io vado controcorrente perché sono un demente”, o scrivere nei suoi aforismi con tutti i crismi: “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti i posti erano occupati”. Come suggerisce Daniela Amenta in Freak convivono identità multiple, la straordinaria capacità visionaria e la potente vena malinconica, entrambe nutrite di cultura ereditata dai residui passaggi delle avanguardie novecentesche distillate nei suoi studi per la laurea al Dams di Bologna con Gianni Celati. I suoi sono giochi visionari ereditati e manipolati dai nonsense dadaisti e surrealisti, virtuosismi linguistici e scenici modellati sui tratti della comicità e della maschera triste in salsa internazional-bolognese. Di certo doveva intendere, vivere e far vivere fino in fondo quel teatro della crudeltà molto vicino a quello ideato da Antonin Artaud con l’uso di tutti gli strumenti di disturbo per far provare allo spettatore sentimenti di agitazione, irritazione e disagio conditi con calcolata demenzialità fuori dai limiti.

  

È lo stesso sibillino gioco che è sostanza del rock demenziale, del punk rock e new wave che a Bologna negli anni Settanta incendiano la vocazione politica e movimentista della città. Freak Antoni ha da subito molto da fare con poeti, artisti, critici come Pier Vittorio Tondelli, Enrico Palandri, Gian Ruggero Manzoni e poi Francesca Alinovi, personaggio emblematico della cultura figurativa transnazionale più radicale che, un anno prima d’essere assassinata nel suo appartamento nel cuore di Bologna, aveva vissuto dappresso la torbida genesi e gli esiti del graffitismo newyorkese, quell’arte acida, radicale e spesso violenta ospitata sui luridi muri del Sud Manhattan e del Bronx.

In un’assonanza non casuale Alinovi battezza quei lavori arte di frontiera proprio come aveva fatto con largo anticipo Freak nel definire proprio la sua: musica di frontiera. È la musica la colonna vibrante che dà senso all’ansia di espressività di Freak Antoni che, dopo il gruppo Demenza Precoce, dà vita agli Skiantos verso il 1977 con un piccolo insieme di amici del Dams. “In una notte d’improvvisazione per una decina di persone innamorate della musica” prende vita Inascoltable inciso in poche ore. Padre indiscusso del rock demenziale si rivela da subito personaggio colto ed irriverente in musica ed in arte, pronto a irridere l’artificiosità della dominante cultura arrogante e invadente e lo fa disprezzando il patetico intellettualismo e l’accigliato – sovente ipocrita e di comodo – impegno politico degli abbondanti venditori a buon mercato di rivoluzioni prossime.

Gli Skiantos, fedeli alla guida del suo geniale frontman, avvertono e paiono soffrire fin dal 1979 i soffocanti e comodi luoghi comuni, gli stereotipi che dominano ormai la musica rock e new wave.

 

La scena ideale per urlarlo in silenzio è il Bologna Rock di quell’anno, festival costruito per portare in scena molti dei gruppi più in evidenza come i Luti Chroma, i Gaznevada, Confusional Quartet, Andy J. Forest, Frigos e Cheaters. Con un gesto chiaramente ispirato a Fluxus o a un ripensato Dada, a un vento di rivolta simil situazionista, gli Skiantos allestiscono sul palco una cucina per far bollire e allegramente mangiare un piatto di spaghetti tra le urla e gli insulti degli spettatori inferociti. “È un delirio d’élite; le masse non ne sanno ancora nulla”, qualcosa che ha molto a che  fare, come Freak ricorda, col Cabaret Voltaire a Zurigo nel 1916 dove “sulla scena si faceva musica battendo chiavi e scatole finché il pubblico protestava fuori di sé”. Da subito Roberto ha rapporti stretti con Frigidaire, con Andrea Pazienza in particolare, con Tanino Liberatore e Massimo Mattioli, collaborazione questa che proseguirà sino al 2008 quando Vincenzo Sparagna, trasferitosi in Umbria nel 2005, fonda la micronazione chiamata Repubblica di Frigolandia nel comune di Giano, in Umbria.

In un autentico vortice letteral-musicale Freak genera in pochi anni personaggi e gruppi come Astro Vitelli, Beppe Starnazza, i Ruvidi del Liscio, i Rotolones, gli Avanzi di Balera, i Pollock e i Vortici. Dai giorni della sua tesi di laurea al Dams, intitolata “Il Viaggio dei Cuori Solitari”, la sua produzione letteraria, in particolare con l’editore Feltrinelli, sarà continua con “Stagioni del Rock Demenziale” del 1981 a “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti”. Nel 1993 “Vademecum per giovani Artisti” e poi “Badilate di Cultura” per Sperling & Kupfer nel 1995. Fumetti con Stefano Ianne e Andrea Pazienza, attore in diversi film (con o senza lo pseudonimo di Tony Garbato), poi, dopo il documentario “Siamo fatti così” di Abi-Elisabeth Armand, si dedica con la sua compagna, la pianista Alessandra Mostacci, alla realizzazione del cd “IroniKontemporaneo”, insieme di sedici brani inediti di grandi compositori contemporanei sui quali Freak recita versi poetici demenziali e surreali in un connubio di taglio bussottiano e cageano, vera anticipazione dei recital di Carmelo Bene. Impossibile, persino inutile, enumerare l’intricato puzzle di vicende, maschere, sberleffi, poesia del nostro uomo. Conviene rileggere la sghemba postfazione di Pier Vittorio Tondelli al suo “Stagioni del Rock Demenziale” quando per raccontare Roberto Antoni dice: “Fa una mossa di testa molto fine” e nel suo libro “senza ricorrere a puttanate ideologiche pseudoletterarie” gioca su due tavoli di cui uno è sicuramente quello di Freak Antoni “che sarebbe quel signorino che si esibiva negli Skiantos e a cui piacevano i gelati e le donnine e le chitarre con le corde invisibili”.

Palpabile in Freak la malinconia dei comici, quella di Keaton, di Jerry Lewis, Petrolini, il suo dinamismo è nutrito di radici letterarie chiaramente ereditato dalla figura di Gianni Celati, straordinario letterato, recentemente scomparso a Brighton, uomo sempre inquieto e totalmente lontano dal presenzialismo e dalle futilità mediatiche passate e attuali.

Bene scrive Ernesto Ferrero quando dice di come Celati “avrebbe voluto produrre per iscritto l’effetto di una smorfia di Stanlio, dove il gesto linguistico diventa gesto fisico”. Celati parla di bagarre come la sola cosa che gli interessa, “quando tutti si picchiano, tutto scoppia, crolla, i ruoli si confondono, il mondo si mostra per quello che è, cioè isterico e paranoico, e insomma si ha un impazzimento generale”. Curiosamente la bagarre è un pezzo ormai classico del repertorio nelle azioni artistiche di Ben Vautier, uno di quei gesti Fluxus che non si limita a giocare sui temi stranianti della letteratura ma si trasforma in violenza fisica quando nel cuore del vernissage di una mostra l’artista aggredisce fino al sangue gli intervenuti.

Proprio come in un jigsaw puzzle il quadro si completa ora con l’ingresso trionfale di Gianni Sassi, che incede in un alone mitico fatto di editoria, letteratura, musica, politica e tanto altro, l’uomo che il bel volume di Gino Di Maggio per Mudima definisce “Uno di noi”. Meglio dare subito la parola a Jean-Jacques Lebel che sa di aver condiviso con Gianni folli speranze in quegli anni milanesi tra Sessanta e Settanta, visto che hanno “vissuto insieme episodi decisivi della lotta trasversale contro la schiavitù e la mercificazione, ma anche perché quegli anni detti di piombo furono per noi un periodo di insurrezione libidinale e artistica, di poesia sonora”. Sassi sperimenta come pochi altri “nuovi strumenti di produzione e diffusione delle arti”. L’idea gli pare davvero quella di poter vivere indipendentemente “senza nessun rispetto per le leggi sacrosante del mercato”, illusioni e delusioni amaramente presto verificate.

Colpi da maestro Sassi ne ha piazzati molti sin dai primi anni Sessanta, dall’agenzia grafica Al.Sa con Albergoni alla ED.912 che dal 1967 al 1969 dà vita a una pluralità di iniziative e progetti, fra cui riviste, manifesti, libri, oggetti, concerti, il tutto avvolto da un radicale tentativo di ridefinizione della controcultura ereditata da Fluxus e dal Situazionismo debordiano. Saranno celebri le copertine per progetti musicali come Osage Tribe, gli album Fetus e Pollution di Franco Battiato, immagini per l’etichetta discografica Bla Bla e tutte quelle della Cramps.

  

È nel 1972 che Sassi fonda la Cramp Records con Tony Tasinato e Franco Mamone e produce – tra l’altro – “Frankenstein”, il primo album di Franco Battiato, e poi “Arbeit macht frei” degli Area e di seguito Arti e Mestieri, Venegoni & Co, Finardi, Claudio Rocchi e Demetrio Stratos. Agli albori degli anni Ottanta avviene l’incontro Skiantos-Sassi e nasce subito il primo album “Mono Tono” che – come ricorda Luca Pallini – si richiama “a una corrente non-sensical tutta americana: quella di Frank Zappa per intenderci”.

Sassi intuisce subito che gli Skiantos sono l’altra faccia del bel canto sanremese, quel cantautorismo melenso, pretenzioso, falsamente poetico, talvolta moralista e persino con velleità pseudo politiche. E’ Sassi che con Freak Antoni costruisce la compagine del gruppo, definisce i nomi dei componenti, Dandy Bestia, Jimmy Bellafronte, Sbarbo, Frankie Grossolani, Andy Bellombrosa, Leo Tormento Pestoduro, insieme rieditano i testi, organizzano concerti in un’intesa scenica e teatrale memore degli happening patrimonio della cultura estetica internazionale. Per Sassi arriveranno poi tra l’altro le riviste Alfabeta e la Gola, convegni come” Il senso della Letteratura” a Palermo nel 1984 sino a Milanopoesia nel 1992.

Tempi, intuizioni, personaggi fuori di testa, stagioni sperimentali da brividi fatti di quell’amore nietzschiano che “non vuole né premio né castigo” si andavano rapidamente cancellando avvolti dalle nebbie dell’oblio e del disinteresse. Freak, il più soffice teppista d’Italia e Gianni, l’uomo del Lucky Bar alla periferia milanese, saranno presto sepolti dalla demagogia dei vincitori. L’Arte Povera fatta di salottieri massimalismi si snervava intanto in asfissianti convegni bolognesi sui quali tuonava stentorea la voce di Celant, per farci credere che “l’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sospendere e colpire”.

In coda e trafelata la controparte transavanguardista di Bonito Oliva per assicurarci che “l’artista, l’intellettuale organico/obliquo si pone come deterrente e riserva, come arsenale in cui sono allestiti linguaggi armati che arpionano il quotidiano per portarlo fuori dalla sua contingenza ed immetterlo nella storia. L’artista e l’intellettuale sono nuclei di sensibilità armata”. 
Altro che “Io sono un ribelle con l’urlo nella pelle”, qui si parla proprio di potere e di mercato

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