Street art di Richard Hambleton (da Wikipedia)

Il Foglio weekend

Addio avanguardia. Come sta cambiando l'arte

Ugo Nespolo

Un tempo diventava politica e disprezzava il mercato. Oggi i milionari si comprano i graffiti. Storia di una normalizzazione

“Il passaggio dalla negazione della tradizione alla tradizione della negazione diviene presto un accademismo, quello che le avanguardie denunciano prima di soccombere a esso”
Antoine Compagnon


Quando senza rossori improvvisi, timori o falsa coscienza ci si accingeva con un po’ d’orgoglio a pronunciare la parola avanguardia si voleva credere, e far credere, d’essere parte attiva, con chi viveva il fare arte come autentica prassi vivente, parte di una forza fatta di posizioni radicali nei confronti dell’istituzionalizzazione del sistema dell’arte tanto cara – si diceva – all’ottusa società borghese. Quel sentimento sapeva bene di trascinare con sé un mortale attacco alla mentalità utilitaria e mercantile fino al punto di voler apertamente combattere il concetto stesso di vendibilità. Avanguardia allora come modernità radicale, fuga dalle istituzioni, posizione alternativa. Bello mimare la struttura dell’organizzazione militare, gerarchia in cui un manipolo di coraggiosi, con sprezzo del pericolo, sono pronti a spingersi dentro le linee nemiche per poter indicare al grosso delle truppe azioni rapide e sicure in grado di spiazzare e sconfiggere il nemico.

 

Esser parte del corpo ansioso dell’avanguardia non ha significato mai voler essere soltanto contemporanei a sé stessi, vivere e proporre linguaggi nuovi, forme nuove, nuove comunicazioni ma davvero invece bruciarsi nel futuro. Dava forza il sentimento di poter incidere nel sociale in una gamma di posizioni vagamente politiche, vivere la certezza di rifuggire l’odiato ruolo esornativo, decorativo e marginale dell’arte e degli artisti. Mai volersi accontentare dell’imperativo di Arthur Rimbaud: “Bisogna essere assolutamente moderni”, ma farsi calamitare invece dal potente richiamo dell’utopico voler “cambiare la vita”. Teorie e prassi progettate e messe in atto dalle storiche avanguardie sature di appassionata ricerca, in un abbraccio totale col sociale, gesto affettuoso e possessivo.

 

Come ci ricorda Charles Russell nel suo “Poeti, profeti e rivoluzionari”, la critica dell’Europa continentale, particolarmente attenta al contesto politico, ha fatto sempre più spesso riferimento alla neoavanguardia e all’imborghesimento dell’avanguardia. Quando sostiene che l’avanguardia “invece di mantenere una posizione estraniata e socialmente antagonista, ha accettato di essere da subito recuperata all’interno dei meccanismi dell’industria e della cultura borghese”. Si produrranno in qualche modo opere sempre più formaliste costruite per il gioco del mercato o per esteriori variazioni stilistiche, ma lontane dai mutamenti sociali o dagli atteggiamenti in qualche modo autenticamente critici o apertamente contro. La potente irruenza teorica, sostanza e cuore delle avanguardie, è andata via via, ma inesorabilmente, scemando per mutarsi in marginali note critiche a piè di pagina, indicazioni a posteriori, blanda letteratura utilitaristica.

 

Sono echi lontani le focose utopie marinettiane fatte di “amore del pericolo, abitudine all’energia ed alla temerarietà”, la follia creatrice del “Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie”, la volontà di passare la partita ad “allegri incendiari dalle dita carbonizzate” quelli che dovranno sviare il corso dei canali “per inondare i musei”, l’esaltazione della modernità e il mito della macchina sino a convincersi di poter stare “ritti sulla cima del mondo” pronti alla “nostra sfida alle stelle”.

 

Ancora impressiona la violenta ironia del Manifesto dadaista del 1918 di Tristan Tzara: “Noi non ci basiamo su nessuna teoria. Ne abbiamo abbastanza delle accademie cubiste e futuriste …. forse che l’arte si fa per soldi e per lisciare il pelo dei nostri cari borghesi?”. E anche “Noi abbiamo bisogno di opere forti e incomprese, una volta per tutte”. Emozionante rileggere alcuni passi del Primo Manifesto Surrealista di André Breton, quando a proposito di poesia dice: “Venga un tempo in cui essa decreti la fine del denaro e spezzi da sola il pane del cielo per la terra”. Surrealismo fondato su un grado di realtà superiore, onnipotenza del sogno, gioco disinteressato del pensiero.

 

Lucide dichiarazioni di poetica, disperato tentativo di gettare sul mercato opere assolutamente invendibili. Se il mondo chiede merci la lotta degli artisti, fedeli ai purismi dei loro manifesti, sarà il tentativo di produrre anti-merce con opere che non rispondono ad alcuna delle attese del mercato. Si deve mettere in chiaro che il tema centrale dell’autenticità dei valori dell’arte non consiste soltanto nel paventare e tener lontana la voracità economica del mercato, quanto nella capacità di rendere visibile ed autentico il rapporto arte-vita, quel gioco profondo che esclude il ruolo dell’arte come opzionale relegandolo a quello di semplice commodity, merce tra le merci.

 

In quella che Mario Perniola considera come l’ultima avanguardia storica del Novecento, l’Internazionale Situazionista, si può dire che Guy Debord e Michèle Bernstein mettano in atto una strategia culturale che “forza i limiti dell’esistente e del possibile”. La loro prima preoccupazione è quella di rompere in modo radicale con l’eclettismo culturale, cortina ideologica dietro cui sta il mercato delle opere d’arte, articolato in vari racket e nasconde interessi esclusivamente commerciali. Ben presto il Situazionismo supererà l’ambito della creazione artistica individuale in una creatività sociale e rivoluzionaria, una direzione teorizzata già nel libro di Debord “La società dello spettacolo”, quello spettacolo che è l’altra faccia del denaro, “l’equivalente generale astratto di tutte le merci”.

 

Crede ancora nel 1982 alla possibilità di un’avanguardia lontana dai vincoli del mercato Francesca Alinovi, quando racconta e teorizza gli esiti di quella che definisce Arte di Frontiera, esplosa in una New York epicentro ormai da molti decenni dell’abbraccio totale tra arte e mercato. “L’arte d’avanguardia non solo non è morta, ma rivive spiando con grandi occhi spalancati sul centro dalla periferia”. Alinovi parla di un’arte più che sotterranea, appunto un’arte di frontiera non solo perché esplode nel sud Manhattan, nel Lower East Side o nel South Bronx, ma perché “si pone entro uno spazio intermedio tra cultura e natura, massa ed élite, bianco e nero (alludo al colore della pelle), aggressività e ironia, immondizia e raffinatezze squisite”. Racconta dei nuovi Kids, i dominatori della scena artistica alternativa newyorchese, una metropoli degradata per eccesso, “un immenso campo di terra bruciata che offre frutti spontanei dal sottosuolo: monitor, ferraglie d’auto fracassate, vetri infranti, frammenti di mobili usati, cavi elettrici, valvole, spinterogeni”. Una sorta di sposalizio tra cultura e natura, barbarie e civiltà, arte e non-arte.

 

In verità Jean Clair aveva da subito intuito che “anche quest’arte, che si proclama tanto più vicina al popolo quanto più ne è lontana, finirà per essere un altro divertimento per l’élite alla ricerca del brivido dei bassi fondi”. Sono gli anni di una politica che tende a marginalizzare le minoranze etniche, quelle che metteranno in atto con gesti e segni carichi di violenza, un linguaggio fatto per minare dall’interno quello dell’arte ufficiale, un atto di possesso, di demarcazione territoriale, un gesto di contestazione e di rifiuto del sistema e della sua palese vocazione alla mercificazione. Street Art, muralismo, graffitismo, writing sono i frutti di un’esplosione estetica violenta capace di alimentare un nuovo American dream, tutto trasgressioni, eccessi, gusto della rivolta, sentimento della morte. Gli artisti sono quei “capi senza Dio e spina dorsale, residui del Welfare State”, come tuonava il pastore battista Jerry Falwell nelle sue prediche contro neri, omosessuali, immigrati secondo i principi della Moral Majority. Nasce un’arte spontanea, marginale che viene dal basso dove, come dice Stefan Eins, direttore negli anni Ottanta della Galleria Fashion Moda: “tu vedi crescere insieme piante e fili elettrici, animali e carcasse d’auto, uomini e tecnologia”.

 

Eins dopo aver chiuso i suoi spazi al 3 di Mercer Street si trasferisce al 2803 della Third Avenue nel South Bronx, zona di povertà, droga e violenza ma nonostante tutto d’intensa creatività. Luogo ideale per graffiti writer, performer ma anche seminari ed eventi d’arte varia. Set ideale per il documentario di Charlie Ahearn, “Wild Style”, che getta luce alla cultura hip-hop e gli spazi in cui le mostre sono sempre accompagnate da eventi musicali capaci di mostrare il talento degli AfriKa Bambaataa o quello di jazzisti come Jerome Cooper o Rasul Siddik. Sono luoghi di legittimazione dei graffiti in quanto arte proprio come in una delle prime mostre sul tema nel 1980, curata dal diciannovenne John “Crash” Matos intitolata “Graffiti Art Success for America”, con artisti come Fab 5 Freddy, Futura 2000, Lady Pink e Lee Quinoňes. Se i newyorchesi avranno “paura di spingersi fin là” la vorace Documenta di Kassel vorrà Fashion Moda tra le primizie delle neo-avanguardie in vendita sul mercato internazionale svilendone – non poco – l’energia primitiva.

 

Presto la forza originaria, la fantasia e l’innovazione di matrice punk-new wave tenderà ad affievolirsi, stretta nell’abbraccio mortale delle consuete sirene del mercato. Dopo l’irruenta nascita di collettivi d’artisti come Co-Lab (Collaborative Projects) che sapranno promuovere, tra l’altro, l’epocale Times Square Show “aperta ad artisti e non, vecchi e bambini, bianchi e neri, dilettanti e professionisti, in antagonismo come nella tradizione dell’avanguardia nei confronti dei musei” (Alinovi), la critica ufficiale, galleristi, istituzioni e musei si precipiteranno a scovare talenti e merci più nuove.

 

Il New Museum allestisce veloce la mostra degli artisti dei tre organismi maggiormente coinvolti in quel progetto: Co-Lab, Fashion Moda, Taller Boricua. Anche le eleganti gallerie uptown rapide daranno asilo a quelle opere nate come anti-arte, mentre a Soho fioriscono mercanti come Tony Shafrazi, Annina Nosei e Mary Boone abili a promuovere giovani talenti. Intanto non può passare inosservato, soffocato da un sentimento di presunta allegria ed ironia, il senso del tragico, una sorta d’ombra della morte che aleggia su opere ed artisti. Sto pensando ai lavori di John Ahearn, uno di quelli della Times Square Show, che si trasferisce a vivere nel South Bronx “per correre il rischio fisico, reale che chiunque ogni giorno possa ammazzarti senza ragione”. Le sue opere hanno da fare con maschere funerarie, personaggi usciti da una Pompei ancora fumante, sono gli ultimi istanti della vita di creature destinate alla morte. Terrificanti le opere di Houston Ladda che lavora e realizza sottoterra, in luoghi sepolti e abbandonati, il suo capolavoro “The Thing”, un itinerario orrifico di iniziazione negli spazi di edifici in rovina impossibili da raggiungere. L’uscita dai torbidi meandri del ghetto possono però essere anche i passi iniziali verso i futuri trionfi fatti di celebrazioni museali o delle più che mondane fiere internazionali condite sovente di noia, soldi e cinismo. Non pochi avevano intuito che il gioco vincente sarebbe stato appendere presto nelle sale del MoMA quei lavori nati per muri fatiscenti, antri abbandonati, decori per scarti urbani fianco a fianco dei Jackson Pollock, Morris Louis, Jasper Johns o delle storiche avanguardie novecentesche.

 

Toccherà a Samo, alias Jean-Michel Basquiat, compiere il miracolo per un artista di colore che non viene dal ghetto di proiettarsi nel trafficato mondo delle gallerie e dei musei internazionali. Luca Beatrice ricorda come “a seguito del suo successo si intuisce il ruolo pioneristico di Robert Thompson, morto di eroina a ventinove anni nel 1966, enfant prodige misconosciuto dell’East Village, di David Hammons, concettuale duro e puro che ha vissuto a lungo tra gli homeless di Manhattan, e del pittore figurativo Robert Colescott, che nel 1997 sarà il primo afroamericano a rappresentare l’America con una personale alla Biennale di Venezia”. A Basquiat non interessa dar risalto al colore della pelle, la sua vita sregolata tende piuttosto a conquistare una forma di riscatto estetico senza limiti. Quel suo talento è fatto di voglia di soldi e successo che lo trascinano in una corsa tanto sfrenata quanto breve. “Da quanto avevo diciassette anni ho sempre pensato che sarei diventato una star”. La vocazione di chi incarna forse il mito contemporaneo “Stay pretty, die young”.

 

Abiti griffati, viaggi in jet privati e limousine come una rockstar, immortalato sulla copertina  del New York Times, il 10 febbraio 1985, a piedi nudi, con indosso un completo di Armani macchiato (artificiosamente) con pittura bianca. Talento svilito da veloci ripetizioni che provocano l’irritazione del filosofo Arthur Danto o l’ironia di Robert Hughes che lo definisce: “L’Eddy Murphy della pittura”. Il destino di Basquiat rimane in fondo quello d’incarnare la consueta trasmutazione di un’avanguardia nata come gesto di rivolta in un crescendo di promozione avida ad opera di dealer, collezionisti, critici, investitori, musei e di sé stesso. Oblio e scomparsa intanto per talenti come Rammellzee o Richard Hambleton, da me battezzato Maestro della minaccia e incontrato in quei luoghi e in quegli anni con Keith Haring o A-One e gli altri.

 

La morte di Basquiat per droga a ventisette anni scatena torrenti di utili apologie: “Jean Michel toccato da Dio”, “ora abbiamo un Santo nero”. Analisi profonda e spietata quella di Robert Hughes nel suo ricordo “Requiem per un peso medio”. Sono gli anni in cui l’industria dell’arte americana ha bisogno di rinnovarsi con un tocco di primitivo e ama quelle “ripetizioni senza possibilità di sviluppo”. Niente ghetto ma background piccolo borghese, con un padre che viaggia in Mercedes ed è proprietario di un edificio di quattro piani. Poi la protezione del suo pallido mentore Andy Warhol del quale condivide credenze e valori, superficialità, soldi e fama.

 

Promosso da Henry Geldzahler, scarso come scrittore e curatore ma abile tipster, poi da Annina Nosei, gallerista italiana venditrice di opere spesso non finite e poi da Tony Shafrazi, noto per aver scarabocchiato al MoMa con vernice rossa Guernica di Picasso, Basquiat incarna – secondo Hughes – un grappolo di volgarità tossiche. Falso mito del nero come innocenza e puro istinto ma anche il feticcio dell’infallibilità della giovinezza esplosa nei club della scena downtown. Il gusto di quello che si presume avanguardia sarà molto utile a colpire il mercato, la furia dell’investimento concordato di quelli che temono di “perdere l’autobus”. Elementi chiave per promuovere il “piccolo talento del ragazzo”.

 

Col cinismo del caso si potrà dire che “se c’è qualcosa che il système de la mode ama più della comparsa di un nuovo giovane artista è la sua scomparsa”. Alla fine non restano altro che i fantasmi di una presunta avanguardia sepolta da valanghe di valute reali o cripto, ingordigie speculative fatte, come scrive Donald Thomson, di “sale delle case d’asta, palcoscenico su cui si consuma un gioco delle parti che vede in scena sempre gli stessi protagonisti: consulenti, galleristi, agenti e artisti viventi che creano opere perfette per magnati alla ricerca di prestigio”. Nonostante tutto, con Hughes non si può però fare a meno di “buttar l’occhio al fondo del barile nella speranza possa contenere le altezze del Parnaso”.

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