Francesco Ammendola/Ufficio Stampa Quirinale/LaPresse 

il foglio arte

Come rifondare una repubblica dell'arte superando lo stato-gattopardo che soffoca il mercato 

Francesco Stocchi

Dalla ricerca “Arte: il valore dell’industry in Italia” nuovi spunti e vecchi allarmi. Diventare internazionali, ma in italiano

Malgrado sappiamo bene quanto sia importante il mercato per l’arte, è salutare ricordarlo periodicamente al fine di esorcizzare semplicistiche visioni che volteggiano intorno all’arte contemporanea, percepita come cerchia elitista fondata su valori vuoti e veicolo preferito dalle speculazioni finanziarie che rendono costo e valore due concetti indipendenti. In un’errata e anacronistica percezione della vox populi, la stampa generalista tratta di arte contemporanea prevalentemente in occasione di record milionari registrati alle aste oppure dell’apparizione di opere o gesti provocatori e di cattivo gusto. In questo modo, parafrasando Newton, i giornali informano i loro lettori sulla goccia, ignorando l’oceano. Il mercato ha liberato l’artista dal castigo della commissione, allora unica forma di sostegno e di visibilità concessa agli artisti, conferita dal potere in atto (laico o ecclesiastico) che certo non avrebbe accettato l’espressione di posizioni libere. In una stagione come quella attuale, fatta di primissimi bilanci, misti a un desiderio di riorganizzazione che non può fare a meno di sane dosi di ottimismo, l’osservatorio Nomisma, in collaborazione con Intesa Sanpaolo e con la promozione del Gruppo Apollo, ha recentemente presentato la ricerca “Arte: il valore dell’industry in Italia”. Lo studio illustra i principali numeri della filiera dell’arte e il suo impatto economico sul paese, partendo quindi dall’assunto che l’arte non rappresenta un ristretto gruppo di privilegiati bensì la forza lavoro di circa 36 mila addetti nell’intera filiera produttiva. Quindi, se l’industria dell’arte è in buona salute, ciò ha un impatto che va ben oltre le distinte categorie di settore. 

La presentazione è stata una buona occasione per illustrare lo stato delle cose, condividere quesiti e presentare qualche richiesta al ministro Franceschini presente in aula. Un nutrito programma di relatori con il pregio di dare voce alle diverse categorie di settore come le case d’asta, le gallerie private, i responsabili della tutela del patrimonio culturale, gli antiquari, gli art-advisor, le istituzioni pubbliche museali, gli operatori logistici delle opere d’arte, e sicuramente la politica nelle sue varie forme istituzionali. Diversi punti di vista con necessità convergenti, mancavano in programma solo i collezionisti, peccato. I problemi espressi e le relative richieste di intervento vertevano prevalentemente intorno alla semplificazione di norme, il sostegno alle imprese del settore (anche) attraverso agevolazioni fiscali e una conseguente, auspicata, competitività con l’estero. Tante domande frutto di crescenti esigenze di un mercato in forte cambiamento (digitalizzazione e apertura geografica del collezionismo vanno di pari passo), “nuove sfide” da attuare come si è ripetuto incessantemente, espressioni di un clima vivace, che guarda al futuro con la necessaria determinazione. Inutile ripetersi in un riassunto dei contenuti emersi, tra l’altro facilmente reperibile online, stimolante forse partire dalla sintesi delle problematiche discusse per capire come procedere, se sia preferibile differenziare gli interventi o tentare di unificare le diverse esigenze in soluzioni generali (vedi riformulazione del sistema stesso). In due parole, che fare? 

La voglia, comprensibile e ampiamente percepita di internazionalizzazione strideva con la tanto provinciale attitudine ad abusare di espressioni inglesi. Termini necessari se intraducibili, che indeboliscono il discorso se sostituibili, era quindi tutto un vortice di “connaisseurship”, “systemic actions”, “industry” e “market values” che rischiavano di stimolare soluzioni protezioniste nei confronti della nostra vituperata lingua (almeno nell’anniversario di Dante, usiamo l’Italiano). Da quanto è emerso dai numerosi interventi, è innanzitutto utile interrogarsi sulla difficoltà applicativa delle norme. Serve a poco incontrarsi, discutere, legiferare e deliberare se poi le (nuove) regole non vengono esercitate. È un problema a monte riassunto da più parti con la solita, lapidaria e terrificante espressione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo che non smette di fotografare la condotta nel nostro paese. Problemi di natura politica che diventano inquietanti nel momento in cui si capisce che i responsabili non sono ben identificabili, nascosti dietro il nebuloso e invincibile termine “burocrazia”. La questione sembra più ampia, e cioè culturale, espressa nel desiderio di mantenere in essere un sistema inefficiente che ha bisogno proprio di quei funzionari causa stessa di inefficienza. Le responsabilità non sono però solo umane ma anche sistemiche, dovute a infrastrutture inadeguate, un’organizzazione verticale poco efficiente e strumenti obsoleti.

Senza, per esempio, una digitalizzazione di tutte le opere notificate dal 1939, non si hanno strumenti per poter operare in un mercato internazionale. Stesso discorso per il certificato di autenticità di un’opera d’arte, comunemente denominato “passaporto”, che riporta le informazioni identitarie dell’opera quali immagine, titolo, nome dell’artista, anno di realizzazione, materiali con cui è stata realizzata, misure, peso, etc. e la firma autografa da parte dell’artista, o della fondazione/archivio che lo rappresenta. Oltre a certificarne l’autenticità in modo conforme e omogeneo, questo strumento rappresenta anche un documento di chiara proprietà. Se per esempio smarrisco o mi viene sottratto un dipinto conservato nella cascina ereditata da mio nonno e non sono in possesso di documenti, immagini che ne attestino l’esistenza, l’opera sarà, di fatto, di proprietà del suo nuovo possessore… Bizzarro che per un’industria il cui impatto economico complessivo sul paese supera i 3,7 miliardi, questioni fondamentali come questa non siano ancora garantite.

Quindi, forse, se l’applicazione delle norme trova dei meglio non identificati ma sostanziali intralci, diviene preferibile avere meno regole con un quadro di sanzioni più certe (un mercato più sicuro, attrae maggiormente), magari regole europee condivise (soglia di valore, notifiche, scadenza passaporto), da poter discutere in un tavolo permanente paritetico dove le collaborazioni e lo scambio di competenze diventino sistematiche. I proclami di nuovi impegni, stanziamenti di risorse e idee possono solo trovare la giusta applicazione in un sistema chiaro nell’ambito di una strategia nazionale a confronto con quella europea. I nostri migliori ambasciatori all’estero sono le opere d’arte, quindi, sviluppo di mostre sulla Storia dell’arte italiana all’estero che vadano per favore oltre il Rinascimento e Caravaggio, inserite in un discorso più ampio di circolazione (prestiti, ricerca) dove far conoscere la cultura divenga propedeutico anche al mercato. Tutto ciò che è mercato non significa minaccia per il patrimonio. Storicamente, in fatto di cultura le nazioni si dividevano in “paesi sorgente” e “paese mercato”. L’Italia primeggiava in entrambi per poi ridursi alla prima categoria, fatto che giustificherebbe un atteggiamento di conservazione del patrimonio. In ambito contemporaneo, questa distinzione non ha alcun senso, finendo per penalizzare sia la valorizzazione che il mercato dell’arte stesso.  

Se si investe invece di abbassare la aliquota di importazione o facilitare l’accesso al credito attraverso dedicati istituti finanziari, se si punta a sostenere la creazione di nuove fiere (magari nel meridione?) nell’ambito di un sistema fiscale non solo non competitivo ma umiliante per la concezione che si ha dell’opera d’arte (equiparata a una borsa o un paio di scarpe), sarà sempre più complesso stringere nuove relazioni commerciali e sbloccare sistemicamente il rapporto farraginoso pubblico/privato, vero perno della questione e grande opportunità inesplorata. Il nostro patrimonio artistico è frutto in larga parte di decisioni di privati che con la loro visione lungimirante, i rischi adottati e un’imprenditorialità fai da te, hanno concorso a formare la nostra identità storico-culturale. Non riconoscere a un collezionista privato, manifeste, inflessibili agevolazioni sulle donazioni delle proprie opere allo stato, significa rifiutare la partecipazione dei cittadini alla res pubblica, ma anche non voler stimolare un mercato di ritorno. La nostra società è permeabile ma l’amministrazione di tale società sembra non comprendere il beneficio che tali misure eserciterebbero. 

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