Il Foglio Arte

L'arte non unisce l'utile al dilettevole

Francesco Stocchi

O l’equivoco dell’artista che indica la retta via Giustizia sociale, tutela delle minoranze, difesa degli autori indigeni: si discute di pol. corr. alla Biennale di San Paolo

Lo scorso 2 settembre è stata presentata alla stampa la 34esima Biennale di San Paolo. Un progetto collettivo che ho avuto l’onore e il piacere di curare insieme a Carla Zaccagnini, Jacopo Crivelli Visconti, Paulo Miyada e Ruth Estebez. La presentazione si è svolta secondo il diffuso protocollo degli eventi di questo tipo: presentazione del presidente della Fondazione Biennale, parola allo sponsor ufficiale che grazie ai fondi erogati ha permesso la preparazione e svolgimento della rassegna in maniera autonoma e professionale, infine parola ai curatori per l’illustrazione del progetto. Avevamo deciso di contenere la presentazione in pochi minuti, per fare esercizio di sintesi (quindi di chiarezza) e per considerazione del ritorno di una mostra “in presenza”. Dopo una lunga preparazione iniziata nel 2018, dopo lo slittamento di un anno causa pandemia, dopo le chiusure e i confinamenti vari, non era più tempo di chiacchiere, pensavamo, bensì di celebrare la ritrovata gioia di condividere uno spazio comune. 


Finite le presentazioni istituzionali, parola alla stampa, in presenza e collegata online. Prima domanda, seguita da una seconda, poi altre due di fila di uno stesso giornalista, poi un altro, fino a trasformare la struttura binaria dell’intervista in un dibattito collegiale. La voglia di esprimersi, di comunicare magari con domande lunghe cinque minuti, di riprendere la parola e precisare quanto detto precedentemente, etc. è stata un’esperienza di conferenza stampa personalmente nuova. Entusiasmante e gratificante dato l’interesse espresso, ma comunque una propensione partecipativa inusuale per la cultura occidentale. Le domande non trovano soluzione di continuità, dalla nostra introduzione durata 20 minuti sono passate quasi due ore. La responsabile dell’ufficio stampa sale sul palco e con  grazia professionale annuncia che lo spazio a disposizione è ormai scaduto da tempo e invita tutti a visitare la mostra.

Si è discusso di vari argomenti intorno alla Biennale, a tutto campo come si dice, dalla struttura critica della mostra, alle soluzioni organizzative in tempi così difficili, dalle posizioni politiche insite al linguaggio degli artisti invitati alla gratuità del biglietto di ingresso. In questa varietà di argomenti, un solo, unico aspetto è ripetutamente tornato all’attenzione: la questione indigena. Dalla sofisticata testata locale specializzata in arte contemporanea, fino alla Cnn, l’argomento ricorrente rimaneva: “In quale maniera ed entità la minoranza indigena è stata considerata nel vostro progetto di mostra?”. La domanda era già emersa nei mesi precedenti e si ripete anche in questi giorni nelle conversazioni con giornalisti provenienti da diverse parti del mondo, con a disposizione spazi diseguali per i loro articoli, rivolti a un pubblico eterogeneo. Questo diffuso e intenso interesse da parte di organi così diversi tra loro si iscrive chiaramente nell’urgenza emersa a livello mondiale in fatto di difesa delle minoranze, revisioni di condotte sociali e culturali, riscrittura della storia. Battaglie giuste e soprattutto necessarie ma che, purtroppo, tendono troppo spesso ad assumere forme di iconoclastia, censura e razzismo invertito (qui il whatever-it-takes può creare più danni che benefici, vedi polarizzazione radicale delle posizioni). 

Vieni quindi doveroso interrogarsi sui motivi di questo monopolio d’interesse intorno all’argomento, e in maniera più ampia studiare la percezione che sta assumendo l’arte agli occhi dell’opinione pubblica. È ruolo dell’arte porsi come garante, o diffusore della giustizia sociale? Sicuramente le arti visive, come la letteratura, il cinema e altre forme artistiche sono state strumento d’espressione di sentimenti pubblici, rivendicazioni socio-politiche e propulsori di cambiamenti. Ma deve essere questo il metro per giudicare l’operato di un progetto culturale? Il diffuso interesse lascia trasparire un’aspettativa di condizioni sine qua non all’interno delle quali dovrebbe oggi esprimersi un artista e operare un’istituzione culturale. Altrimenti viene meno l’interesse nei confronti del progetto, che rischia di essere denigrato per mancato engagement. Questo nel tempo non può che generare un’omologazione di contenuti e stili, mescolando i casi di genuino e legittimo interesse nei confronti della “causa” con un velato opportunismo misto a insicurezza, comprensibile (quest’ultima) soprattutto da parte delle giovani generazioni di artisti. Sono forse le nuove forme d’arte, come innovativi medium tecnologici per esempio, a dare adito a queste aspettative, oppure è forse il mercato a favorire questo cambiamento di paradigma che fa passare una possibilità espressiva per un necessità dovuta? Non credo. 

La lettura utilitaristica dell’arte sembra un sintomo della sua stessa crisi espressiva. Più che nel passato ci si aspetta oggi che l’arte sia uno degli organi delle conquiste sociali, grazie (o a causa) del suo successo che le ha offerto esposizione mediatica come mai prima. Nulla di grave, sono periodi transitori, ma siamo oggi nel pieno di una percezione dell’artista che debba insegnare, o perlomeno indicare la retta via (o peggio ancora “dare il buon esempio”), delle mostre che devono illustrare i problemi correnti e offrire soluzioni ai mali del mondo. Addio all’esperienza artistica che invita all’evasione, al sogno. magari alla fantasia collettiva. Viene pretesa militanza. All’artista non si chiede di vivere nel suo lavoro bensì di “fare ricerca” e trasferirla nella propria opera. Le accademie (soprattutto quelle anglosassoni) alimentano ciò mettendo avanti il pensiero all’azione, che finisce per non essere neanche necessaria purché il pensiero sia implicato nella cronaca attuale. Effetti dannosi di quell’avanguardia radicale che fu l’arte concettuale.

Alla luce di questo clima, le domande rispetto alla questione indigena non potevano quindi coglierci di sorpresa, casomai la loro intensità e diffusione capillare sì. La nostra risposta ha voluto porre l’attenzione sul metodo piuttosto che il numero ma la rigida schematizzazione aritmetica è quanto viene chiesto, numero che cancella ogni complessità del processo, valori individuali e pesi specifici di un pensiero. Quindi, i numeri: la percentuale di artisti indigeni presenti nella Biennale di San Paulo è del 9 per cento. Un numero forse basso rispetto alla ricchezza espressiva che abbiamo (non senza difficoltà) avuto modo di trovare, ma comunque la percentuale più alta mai registrata nelle precedenti 33 edizioni della Biennale di San Paolo. Un inizio che si spera apra a futuri sviluppi evolutivi. 

 

Ciò che abbiamo trovato stimolante nell’esporre artisti indigeni è stato l’arricchimento che tali opere potevano portare all’insieme della mostra. L’interesse non era quindi mostrare artisti indigeni in quanto tali (chiamiamola quota indigena), così come un artista donna, un artista ghanese o un artista transessuale non dovrebbero essere presenti in quanto rappresentanti di un gruppo d’appartenenza, ma per l’effetto che le proprie opere creano in un dato contesto. Altrimenti, si perde di vista l’intento artistico, e una volta raggiunta un’aritmetica parità (ma solo quella, quindi un’eguaglianza di facciata) non si saprà più come procedere, rimanendo senza il pensiero e nemmeno l’azione. Una domanda che voleva probabilmente essere in difesa della causa indigena, o comunque esprimere sensibilità nei confronti dell’argomento, è stata più o meno espressa in questi termini: “Gli artisti indigeni come si sono comportati? Hanno avuto un atteggiamento collaborativo e non nervoso nei vostri confronti?” Quindi una massa unica, omogenea. Come chiedere se tutti i brasiliani sono spiritosi o tutti gli spagnoli intelligenti. Una visione semplicistica e primitiva (ma purtroppo diffusa) del problema che nel paradosso di voler difendere la presenza della minoranza, la omologa annullandone le differenze specifiche

Gli artisti indigeni, diversi tra loro in termini di generazioni e medium sono stati, come ogni altro artista inviato, considerati individualmente e presentatati in dialogo con altri artisti non indigeni per offrire istanze associative o comparative. La scoperta di opere poco o per nulla note ha anche permesso di percepire diversamente opere già note, mettendole sotto una nuova luce, svelandone volti inediti. Uno degli oggetti che declina il percorso della Biennale di San Paolo, è un catalogo, più precisamente il suo frontespizio arricchito da una dedica speciale. Nel settembre 1926, Constantin Brancusi arriva a New York per accompagnare l’allestimento della sua seconda mostra negli Stati Uniti insieme a Marcel Duchamp, il curatore della mostra. L’arrivo dei due, e soprattutto delle opere di Brancusi, porta con sé contorni mitici che travalicano l’ambito della storia dell’arte. I funzionari della dogana statunitense, che si sono rifiutati di catalogare le sculture di Brancusi come opere d’arte – in particolare una delle sue iconiche Bird in Space (Uccello nello spazio) e le hanno classificate nella categoria “Kitchenware and Hospital Instruments”, sequestrano il suo lavoro. L’episodio dà origine a un famoso processo legale, che sarebbe durato per i  due anni successivi e avrebbe avuto testimonianze di vari critici e difensori dell’arte astratta. Alla fine, il giudice J. Waite dichiara: “Che siamo o meno in sintonia con queste nuove idee e le scuole che le rappresentano, pensiamo che la loro esistenza e la loro influenza sui mondi dell’arte, come riconosciuto dai tribunali, debba essere considerata”, confermando che la concezione dell’arte in vigore da secoli era in corso di sostituzione.

Pochi giorni dopo l’arrivo di Brancusi a New York, gli artisti Tarsila do Amaral e Oswald de Andrade, con cui lo scultore fece amicizia a Parigi, si sposano a San Paolo. Vale la pena immaginare la scena: seduto in una delle scatole di legno dove viaggiavano le sculture, Brancusi riceve la notizia e, sospendendo l’allestimento della mostra, dedica agli sposini un catalogo fresco di stampa. La pagina ingiallita del catalogo, con la sua dedica affettuosa e senza pretese, condensa innumerevoli corrispondenze, relazioni, scambi e andirivieni, quali l’attrazione che Parigi esercitava sugli artisti di tutto il mondo negli anni Venti; la penetrazione dell’arte moderna negli Stati Uniti che culminerà nel passaggio dalla centralità parigina a quella di New York dagli anni Quaranta in poi; la circolazione sempre più massiccia di opere d’arte attraverso la loro riproduzione; le alleanze e le reti che gli artisti brasiliani hanno stabilito con altri professionisti provenienti da un ambiente d’avanguardia che era già diventato globale.


Nell’ambito di una mostra costruita da innumerevoli dialoghi, scambi e discussioni in e da vari luoghi del mondo, è essenziale sottolineare come l’arte possa colmare le distanze tra diversi contesti, momenti e cosmovisioni e rimane sempre aperta a nuovi significati dei cambiamenti che il tempo e la storia impongono. Circoscrivere tali contesti è fare atto di protezionismo simile a quello che adottano Matteo Salvini e simili. Non sono forse indigeni anche i veneti con la loro lingua e le loro tradizioni endemiche? Possibili incontri e attriti tra opere provenienti da contesti e periodi dissimili fungono da metonimia della 34esima Biennale, la sua volontà di stabilire relazioni insospettate senza rinunciare a preservare il mistero insito in ciascuna delle opere. Al pubblico il compito di trovare il proprio.

 

Di più su questi argomenti: